Storia
Figli di un dio minore? marginalità e malessere degli storici in Italia
Alcune settimane fa Fulvio Cammarano, Presidente della Società italiana per lo studio della storia contemporanea (SISSCO), in un’intervista dal titolo “Avete emarginato la storia”, realizzata da Antonio Carioti e pubblicata su “La lettura” ha detto che quello presente è un tempo magro per la storia, e che la storia, come disciplina, non occupa un posto nel sapere collettivo, è il brutto anatroccolo del sapere nel salotto dei media.
Non è la prima volta che gli storici si interrogano sul senso del loro mestiere, ma anche sulla rilevanza della storia nello spazio pubblico.
Di solito questo accadeva rispetto a eventi da cui si veniva letteralmente travolti Esemplare e comunque canonico Apologia della storia o mestiere di storico (Einaudi) di Marc Bloch che egli scrive nel periodo della sua clandestinità nei primi anni ’40 nel tempo della Francia nazificata. In quelle pagine egli insiste sulla necessità di riannodare la dimensione pubblica con il senso della riflessione sulla storia, meglio sulla funzione civica dello studio della storia.
La storia, tuttavia, non era solo il terreno della riflessione nel momento del ripiego, è stata anche la disciplina che ha segnato a lungo il costume collettivo dell’intellettualità pubblica dell’Italia nel secondo dopoguerra. Così dice il senso comune.
A me pare che questa presunta centralità della storia sia più un argomento propagandistico che reale. La storia è stata la disciplina con cui la sinistra ha cercato di legittimare se stessa nella vita pubblica del Paese, il codice culturale con cui ha cercato di fondare una propria egemonia. Secondo un’opinione consolidata è stata la disciplina su cui si è costruito il palinsesto culturale di tutto il secondo dopoguerra. La sua crisi attuale, per certi aspetti, non sarebbe che la crisi di una versione, di un modello interpretativo e di una parte politica che se ne è servita.
La realtà mi sembra più banale. La storia come disciplina che consente il fondamento della coscienza di sé, che spiega il profilo del Paese reale, che mette insieme i punti alti e le questioni nevralgiche dello sviluppo in realtà ha mantenuto la sua egemonia per un decennio. Già con la fine degli anni ’50 è stata sostituita dalle scienze sociali.
La storia, che a lungo è stata celebrata come il codice culturale dominante, sopravviveva a stento già all’inizio degli anni ’60. Trionfanti erano altri saperi: la sociologia, la scienza economica, l’antropologia, la psicologia. Quelle stesse discipline che Fulvio Cammarano dice essere oggi dominanti nello spazio pubblico a discapito della storia, in realtà l’avevano già scalzata mezzo secolo fa.
Magari per un decennio la storia apparve ancora come la disciplina principe.In ogni caso non resistette allo snodo del post’68.
Forse non ha torto, il prof. Aldo Giannulli che domenica scorsa ha replicato a Fulvio Cammarano – sempre su “La lettura” – quando insiste sul fatto che abbiamo parlato troppo di fascismo, di comunismo, e poco di decolonizzazione, poco di globalizzazione. E comunque sottolinea come la crisi della storia sia anche la crisi di una disciplina che nei curricula universitari arretra. Non ha torto, ma secondo me non colpisce il centro del problema.
Credo sia importante provare a rispondere a due domande. La prima riguarda il modo in cui è utilizzata la storia (quando è utilizzata); la seconda riguarda invece più direttamente noi storici.
Prima domanda.
E’ proprio vero che la storia è una disciplina “fuori uso”? E questa condizione dipende dai temi che si indagano?
Non ne sono così convinto. In realtà l’uso della storia, meglio il ricorso agli esempi del/dal passato va fortissimo nel discorso pubblico. Solo che quell’uso soggiace a un principio e quel principio è il canone guida dell’antistoria.
Molto semplicemente: l’uso della spiegazione storica riguarda il radicamento profondo della visione complottistica della storia. La storia come spiegazione controfattuale, come meccanismo che rovescia la realtà, spiegandone così il senso profondo è un metodo che va fortissimo, che ha guadagnato molti punti nell’opinione pubblica. Osservo come in Italia non sia un fenomeno nuovo e come la sua forza sia in crescita da anni.
Seconda domanda.
Perché questo non è un tema nell’agenda pubblica? Non è questo un campo in cui, al di là del sapere specialistico, si potrebbe operare – in primis da parte di noi storici – per la definizione di una buona conoscenza della storia, laddove con “buona conoscenza” si intende, più che sapere correttamente date o fatti, la capacità di sapere e di interrogare dati, segni o di avere consapevolezza di ciò che non si sa?
Non è questo un tema che testimonia, prima ancora della crisi della storia come disciplina, della crisi di noi storici, della crisi della della funzione pubblica di chi si accredita come storico (questione che mi sembra di capire stia a cuore a Fulvio Cammarano), del mestiere di storico, per riprendere Marc Bloch?
Non varrebbe la pena occuparsene?
Non sarebbe questo un punto essenziale per contribuire a costruire una visione né salvifica, né demoniaca della politica e dunque volta a favorire la retrocessione dell’antipolitica? Comunque non sarebbe un modo di rispondere al mito del complotto proponendo un impegno che non spiega la propria marginalità ricorrendo a una visione vittimistica e vittimizzata della propria condizione?
Il primo compito di chi oggi ha a cuore il buon uso del passato e la conoscenza critica e documentata del passato dovrebbe essere una battaglia civile per il contenimento della visione complottista della storia. Ovvero una scelta per una visione laica della storia, di quella passata e di quella attuale
Ma quella battaglia, che non è una battaglia di retroguardia, oggi in Italia non mi sembra che la combatta nessuno di noi. Perché?
Devi fare login per commentare
Accedi