Storia

Federico il Grande, alle radici del nazismo

21 Luglio 2017

“Federico il Grande”, un protagonista della storia politica tedesca ma, ben si può dire, un riferimento per la storia culturale dell’Occidente. Principe illuminato, portatore di un progetto politico che si nutre della migliore cultura del suo tempo, capace di riflettere con disincanto sulle vicende umane e, tuttavia, ossessionato dalla volontà di potenza. Un philosophe,appassionato lettore e poligrafo instancabile, amico di Voltaire e di d’Alambert , costantemente in contraddizione con sé stesso. Un enigma, le cui vicende personali ed il cui pensiero inducono a porre domande inquietanti come quella che, in ubbidienza alla mai saziata voglia di Schuldfrage proprio della cultura tedesca postnazista, lo Spiegel poneva agli storici tedeschi e cioè se “Federico non fosse colpevole per Hitler e per Auschwitz”.

Alessandro Barbero, storico e brillante comunicatore, ne regala un’affascinante biografia, ripubblicata per i tipi di Sellerio nella collana “La memoria”,  offrendo anche una sua risposta al quesito posto dall’autorevole magazine tedesco. Sicuramente, lo dimostra ampiamente Barbero, Federico sta all’origine del militarismo tedesco e della sua voglia espansionistica, come anche, precisi e poco nobili, indici di culto della superiorità razziale vengono fuori dai suoi comportamenti e, perfino, da qualche suo scritto. E dire che il percorso educativo di Federico lasciava presupporre ben altri esiti. La sua adolescenza e la sua giovinezza erano state segnate dal conflitto con il re suo padre, uomo rozzo e brutale oltre che ossessionato da da un rigore religioso di marca protestante. Ribelle e tutt’altro che incline alle virtù eroiche, il padre riferendosi al figlio parlava di “quel furfante di Fritz”, Federico era stato negli anni della formazione tutto il contrario del genitore, si era nutrito infatti di buone letture, si era appassionato alla musica (componeva e suonava con maestria il flauto), sembrava affascinato solo dalle raffinatezze soprattutto parigine così da parlare male il tedesco (che considerava lingua barbara) e da usare solo il francese.

Una disperazione per Federico Guglielmo che lo considerava un figlio degenere, un effeminato non in grado di assumere le responsabilità di governo per il quale “il re è il primo servitore dello Stato”. Questa rivolta si concretò in un tentativo di fuga andato a male che provocò la reazione violenta del padre e che gli costò anni di esilio  nella sperduta Kustrin. Una disperazione per Federico Guglielmo che, in un certo momento, pensò perfino di diseredarlo. Sembrava, dunque, che l’educazione imposta dal padre dovesse risolversi in un evidente fallimento ma quanto avvenne nel momento in cui, morto il padre, ne raccolse l’eredità quell’esito che appariva scontato venne clamorosamente smentito. Ci fu, infatti, una sorta di inaspettata trasformazione, il giovane raffinato e ostile a tutto quanto sapeva di militaresco, mutò radicalmente pelle manifestandosi il condottiero che per le gesta strabilianti che riuscì a compiere meritò fin dal suo ingresso nella storia politica europea l’appellativo di “Grande”. Già dai suoi primi atti di governo, Federico puntò al rafforzamento della forza militare – una parte più che cospicua del bilancio dello Stato era destinata alle spese militari – nella prospettiva di fare della Prussia, fino ad allora un piccolo regno molto arretrato, una potenza in grado di competere con quelli che erano stati fino ad allora gli assetti di potere europei. Egli inaugurò quindi una politica aggressiva riservandosi sempre la prima mossa così da mettere in difficoltà gli avversari.

Ingrandire la Prussia, anche per farne la potenza egemone nello scacchiere tedesco strappando agli Asburgo pezzi importanti del loro impero, fu l’impegno che lo assorbì per la gran parte del suo regno. Il talento militare lo portò a cogliere vittorie strabilianti e ingenerare l’idea della sua imbattibilità. Questa politica gli consentì di raggiungere l’obbiettivo voluto. La Prussia poté infatti ingrandirsi territorialmente incamerando la Slesia prima e parte della Pomerania, dopo, e divenne una potenza temibile governata col pugno di ferro da quello che l’imperatrice Maria Teresa d’Austria ebbe a definire “il malvagio uomo”. Cinico e spregiudicato, Federico fu, tuttavia, un uomo solo, una solitudine accentuata dalla sua misogenia, che si auto impose, obbedendo ad un senso del dovere esagerato, uno stile di vita austero senza tuttavia trascurare mai di coltivare la passione per i libri e per la scrittura. Per i suoi sudditi, nonostante un evidente disprezzo che nutriva per l’umanità, fu un riferimento forte, il riferimento di giustizia, attento ai bisogni anche del più sperduto villaggio dei suoi domini o ai diritti, se così si possono chiamare, dell’ultimo suddito. Alla sua morte, avvenuta dopo 76 anni di regno e alla vigilia della rivoluzione francese, la vecchia Europa degli imperi, anche per suo merito, non era più la stessa.

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