Storia
Federico II la chiamò “Vittoria” ma fu l’inizio della sua sconfitta
Il nome era augurale e corrispondeva agli eventi che vedevano l’imperatore Federico II assaporare il trionfo sui ribelli. Vittoria, questa era la denominazione della città costruita, a tambur battente, seguendo i modelli classici che lo svevo amava, doveva essere il luogo che esprimeva al massimo il potere imperiale.
Lì, con la sua corte fantastica ed il suo esotico serraglio attendeva, dopo averla circondata senza lasciare via di scampo ai difensori, la resa dell’orgogliosa Parma, ultimo ostacolo per l’affermazione delle sue armi.
Nulla, dunque, sembrava potesse frapporsi al suo disegno del suo incontrastato dominio sulla penisola e, per questo motivo l’imperatore, contrariamente al suo costume, appariva particolarmente rilassato e dedito ai piaceri.
Era così tranquillo e sicuro di sé che, all’inizio della stagione invernale, licenziò gran parte delle milizie cittadine mentre altre ne inviò sui tanti teatri di guerra che erano ancora aperti, in attesa laddove l’avversaria non si fosse piegata, di richiamarle per sferrare l’assalto finale contro la città nemica.
La superbia dell’imperatore gli fece ad un certo punto cambiare opinione sul da farsi, infatti quando finalmente, come lui stesso aveva auspicato in un primo tempo, una delegazione di parmensi venne ad implorare il perdono e la pace si permise di respingerla con disprezzo e deridendo gli ambasciatori.
Niente faceva infatti presumere quanto sarebbe, di lì a qualche settimana, accaduto.
Quel 18 febbraio del 1248, Vittoria si svegliò tranquilla, piuttosto che inverno sembrava che fosse arrivata la primavera tanto che Federico, appassionato di ars venandi, decise di non lasciarsi sfuggire l’occasione per una battuta di caccia.
Così, accompagnato dal figlio Manfredi e dal grosso della guardia imperiale, si trattava di oltre cinquanta cavalieri molti dei quali saraceni, sul far dell’alba, lasciò la città dirigendosi verso le paludi che circondavano Parma, certo di potere fare buona caccia.
Anche il figlio Enzo, il raffinato poeta autore, fra l’altro della splendida e triste canzone “Va, canzonetta mia, e saluta Messere,dilli lo mal ch’i’ aggio…”, quel giorno si era allontanato con una schiera di armati da Vittoria dove, invece, rimaneva a guardia il marchese Lancia, con un pugno di armati.
Di tutto questo movimento i parmigiani furono avvertiti da spie presenti nella città.
Questo fece scattare la trappola.
Un gruppo di cavalieri varcò la porta principale della città assediata, fingendo una sortita ma, appena fuori si diresse per le montagne. Il marchese, che vigilava sulla sicurezza di Vittoria, abboccò al tranello e con i suoi si diede ad inseguire gli avversari.
Non appena però le truppe di Lancia furono abbastanza lontane, i parmigiani uscirono in massa, come furie, e si avventarono sulla città di Federico.
In poco tempo le difese furono travolte e la città modello fu messa a ferro e fuoco.
Lo stesso Federico che, udite le campane a stormo, aveva capito quanto stava accadendo e che, in fretta e furia, era rientrato alla base, si trovò coinvolto nella mischia e per scampare al pericolo dovette rifugiarsi con un gruppetto di armati a Borgo San Donnino.
Il successo dei parmigiani fu ancor più gratificato da un ingente bottino, il tesoro imperiale venne infatti saccheggiato.
In men che non si dica, Federico aveva perso tutto, e di Vittoria, la sua città modello, non rimasto che un cumulo di macerie fumanti. Il bilancio delle perdite umane fu pesantissimo, millecinquecento dei suoi uomini erano periti, le donne dell’harem, gli eunuchi e i favolosi animali esotici dispersi o preda dei suoi nemici.
Anche se nel torno di poco tempo Federico era riuscito a vendicarsi, la rinomanza che ebbe la sconfitta subita a Vittoria fu tale da convincere quella che, impropriamente, potremmo chiamare l’opinione pubblica del tempo che lo stupor mundi, com’era stato definito l’imperatore, era ormai al tramonto e la sua fine fosse vicina.
Per questa ragione molti di quelli che gli erano stati alleati lo abbandonarono al suo destino.
Da questa storia possiamo trarre la morale che la “superbia è pur sempre cattiva consigliera”
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