Giustizia

Falcone: ma non gli volevano bene

23 Maggio 2019

Le condanne del maxiprocesso, seppur ridotte in appello, furono mantenute e ribadite in Cassazione: prima della strage di Capaci Falcone vide che il suo capolavoro giuridico non fosse storpiato.
Ma prima di Capaci morì, per l’invidia dei colleghi di Palermo,  per l’arretratezza culturale dello stesso Consiglio Superiore della Magistratura, di una classe politica che non ne aveva capito (o forse opportunamente non volle capire) il suo inestimabile valore.

Non riuscì a diventare capo dell’ufficio istruzione del tribunale di Palermo, quando si dimise Caponnetto: gli fu preferito Antonino Meli.

Il criterio dell’anzianità prevaleva su quello della professionalità che per Falcone era indiscussa. 

Neppure fu nominato per l’Alto Commissario Antimafia: gli fu preferito in questo caso Domenico Sica. Era il 10 agosto 1988. Mancavano solo dieci mesi per arrivare alla punta più alta della congiura contro Falcone: l’attentato all’Addaura, coronamento di un’opera di demolizione portata avanti da anni e con ogni mezzo, intensificata con la sporca montatura delle lettere anonime del corvo di Palermo e sfociata nel tentativo di cancellarlo con cinquantasette candelotti di dinamite. Diventerà procuratore aggiunto di  Piero Giammanco, ma  gli sarà impedito di lavorare.
Pur avendo ipotizzato la Superprocura non ne vide il varo:  abbandonò la Sicilia, per diventare direttore degli affari penali al ministero di Grazia e Giustizia, su iniziativa dell’allora ministro Claudio Martelli.
In un’intervista drammatica concessa a Repubblica il 20/07/1988 Paolo Borsellino denunciò che la lotta alla mafia non era più incoraggiante, perché il giudice Giovanni Falcone non era più il titolare delle grandi inchieste che iniziarono con il maxiprocesso. ”Ci sono seri tentativi per smantellare definitivamente il pool antimafia dell’ufficio istruzione di Palermo. Stiamo rischiando di creare un pericoloso vuoto, stiamo tornando indietro di venti anni”.
Giovanni Falcone in una dolorosa lettera (13 settembre 1988) indirizzata al presidente del Tribunale di Palermo scrisse: “Ho tollerato in silenzio in questi ultimi anni in cui mi sono occupato di istruttorie sulla criminalità mafiosa, le inevitabili accuse di protagonismo o di scorrettezze nel mio lavoro. Ritenendo  di compiere un servizio utile alla società ero pago del dovere compiuto e consapevole… ero inoltre sicuro che le istruttorie alle quali ho collaborato erano state condotte nel più assoluto rispetto della legalità. Quando poi si è prospettato il problema della sostituzione del Consigliere Caponnetto ho avanzato la mia candidatura, ritenendo che questa fosse l’unica maniera per evitare la dispersione di un  patrimonio prezioso di conoscenze e professionalità che l’ufficio, cui appartengo, aveva globalmente acquisito…In quella occasione ho dovuto registrare infami calunnie ed una campagna denigratoria di inaudita bassezza, cui non ho reagito solo perché ritenevo, forse a torto, che il mio ruolo imponesse il silenzio…. Quello che paventavo è avvenuto: le istruttorie nei processi di mafie si sono inceppate e quel delicatissimo congegno che è il gruppo cosiddetto antimafia dell’ufficio istruzione di Palermo è ormai in stato di stallo. Paolo Borsellino, della cui amicizia mi onoro, ha dimostrato ancora una volta il suo senso dello Stato ed il suo coraggio, denunciando pubblicamente omissioni ed inerzie nella repressione del fenomeno mafioso, che sono sotto gli occhi di tutti. Come risposta è stata innescata un’indegna manovra per tentare di stravolgere  il profondo valore morale del suo gesto, riducendo tutto ad una bega fra cordate di magistrati.
Ciò non mi ferisce particolarmente, a parte il disgusto per chi è capace di tanta bassezza morale ed allora dopo lunga riflessione mi sono reso conto che l’unica via praticabile è quella di cambiare ufficio”. Le dimissioni furono respinte.
Ha scritto Giuseppe D’Avanzo, prestigioso editorialista di “Repubblica”pochi anni fa scomparso: “l’indipendenza e l’autonomia della funzione giudiziaria erano per lui valori ineliminabili. Non equivalevano ad un privilegio di casta, come appare ad alcuni magistrati, né un riconoscimento che declina una sostanziale irresponsabilità, come credono altri. Al contrario egli pensava che autonomia ed indipendenza fossero le gravose responsabilità che la Costituzione ha affidato al magistrato per garantire l’imparzialità del giudizio, l’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, l’efficienza della macchina giudiziaria. Giovanni Falcone sentiva l’indipendenza del magistrato come risorsa, come il segno stesso, costitutivo, della sua identità di servitore dello Stato. Chiunque lo abbia incontrato, magistrato o politico che fosse, ha avvertito questa sua ostinazione e la sua ostinazione lo ha reso estraneo e fuori posto, in ogni luogo in cui gli è toccato di stare, tra i magistrati tentati dal potere e tra i politici innamorati dei magistrati quietisti sensibili al comando del potere: così è diventato un intruso da eliminare e calunniare, demolire”(Giuseppe D’Avanzo Introduzione a Giovanni Falcone  in La Posta in gioco Interventi e proposte per la lotta alla mafia).
Aveva inventato un metodo: avere la prova e dopo sentiva i famosi pentiti: non viceversa.

Disponeva l’istruttoria contro un mafioso solo sulla base di riscontri oggettivi. Lavorava in media 14 ore al giorno.
Ayala racconta che prima dell’inverno del 1987 nell’estate dello stesso anno riuscì a ritagliarsi una vacanza con Falcone e la sua amata Francesca, senza l’ombra della scorta a Skiatos, in pieno Egeo. “Affittammo due motorini, una macchina ed un gommone. Non riuscivamo a stare fermi. Era una dimensione banalmente normale, ma per noi altrettanto banalmente eccezionale. Neanche un minuto di quella ritrovata libertà doveva essere sprecato. Roba da psicanalista, sentenziò Falcone ed aveva ragione. Si però dallo strizzacervelli ci si va dopo, intanto godiamocela. La qualità della vita non è determinata dalle grandi cose, ma dalle piccole, a condizione di essere capaci di apprezzarle. Eravamo sul gommone, sul finire della prima bottiglia di vino, mentre Giovanni si ostinava a pescare senza alcun apprezzabile risultato”.

Enzo Biagi ricorda di aver detto a Giovanni Falcone e alla sua sposa Francesca”perché non fate un bambino. “Non si fanno orfani”, rispose Giovanni Falcone” (Ripensando a Giovanni Falcone Corriere della Sera del 23 maggio 2004).

Era un magistrato di altra caratura: non ce ne sono più.

Biagio Riccio

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