Storia

Essere umani vuol dire continuare a “sconfinare”

23 Novembre 2018

Si fa presto a dire confine. Poi ti trovi davanti alla classe di migranti-minori-non-accompagnati in cui fai volontariato, hai programmato di affrontare proprio questo vocabolo, e ti perdi. Ti perdi in mille attraversamenti. Perché sono loro che, involontariamente e senza neppure saperlo, ti spingono avanti. Accetti il rischio di proseguire privo di bussola. Inevitabilmente sconfini. Sconfinare è uno stato dell’anima. Certo, vedi e riconosci e indichi dogane, barriere, muri, riconosci e vivi convenzioni, appartenenze, identità. Cerchi di andare oltre. Attraversamenti appunto, in senso non soltanto geografico ma anche linguistico, ideologico, generazionale, culturale. Lo sa nel profondo – si intuisce dalla calda passione con cui ne scrive – Donatella Ferrario, giornalista e critica cinematografica che con Edizioni San Paolo ha da poco pubblicato “Sconfinare. Viaggio alla ricerca dell’altro e dell’altrove” (pp. 224, euro 16,00). Un viaggio a tappe dove ogni sosta è incontro con qualcuno che di atlanti culturali umani ne ha collezionati o ereditati, comunque introiettati parecchi: Antonia Arslan, Eugenio Borgna, Pap Khouma, Uliano Lucas, Claudio Magris, José Tolentino Mendonça, Paolo Rumiz, Abraham Yehoshua. Con un finale dedica/ricordo a/di Giorgio Pressbuger che suona benedizione.

​Inutile precisare che il tema mi è particolarmente caro poiché – lo spiega Abraham B. Yehoshua a Donatella – la questione dei confini è intrinsecamente ebraica, interroga profondamente gli ebrei, e su come il popolo del Libro abbia recepito il tema del loro superamento, in che modo lo abbia attuato e il prezzo che ha poi pagato. Ricorda Yehoshua che il primo ebreo, Abramo, secondo la tradizione è stato chiamato da Dio per attraversare le frontiere. «Lech-lechà, vai-vattene dal tuo paese… verso il paese che io ti indicherò, farò di te un grande popolo e ti benedirò, renderò grande il tuo nome… A condizione, naturalmente, che tu obbedisca ai miei comandamenti». Ed ecco Yehoshua toccare un tema nodale: passare i confini vuol dire perdere alcuni elementi della propria identità, perché il territorio è un elemento importante dell’identità, bisogna quindi abbandonare le componenti principali dell’identità al fine di riceverne una nuova che dipenderà da Dio, e così lo spazio materiale diviene luogo sacro. Ne consegue che fin dall’inizio il rapporto tra ebrei e il territorio-spazio con confini è problematico, perché il popolo ebraico non è nomade come ad esempio i rom, i camminanti o i beduini…

​Che meraviglioso e immenso, mobile orizzonte semantico contiene la parola confine. Osserva Ferrario: «Un ponte verso l’altro, un altro che ci assomiglia nella differenza, che ci conduce in un altrove comunque comune». Facendo le dovute attenzioni – è il consiglio di Claudio Magris – a come avvengono spostamenti e cadute di muri. «La giusta reazione alla xenofobia ha portato a una retorica buonista che vede in ogni sentimento del confine qualcosa di barbaro e pericoloso». In realtà ognuno di noi ha bisogno del proprio confine. Ciascuno di noi ha bisogno di sentirsi a casa, in un contesto familiare, che conosciamo e riconosciamo, che è cresciuto con noi. Il che non è certo impedimento, anzi, a scoprire il fascino, l’arricchimento di altri mondi nei quali possiamo entrare varcando sì il confine però senza cancellare il nostro, la nostra origine. Voler eliminare le differenze in una falsa universalità è una «stupida barbarie» foriera di violenze.

​Antidoti? Uno è certamente la letteratura – l’arte in generale – che è al medesimo tempo doganiere e passeur. Lo sa Pap (Abdoulaye) Khouma, di Dakar, immigrato in Italia dal 1984, doppio passaporto italiano e senegalese, letterato che conosce la fuga e la violenza. «La libertà, il lento superamento della paura? Entrare in un negozio, bere un caffè al bar, camminare a passo lento, spingere un carrello in un supermercato. La libertà è a volte tangibile: è un foglio ripiegato in una tasca». L’agognato permesso di soggiorno. Con la libertà, per Pap, la poesia. «Molti restano, lavorano, vendono, diventano operai, / anche se sfruttati più degli altri. / Molti restano e conoscono delle ragazze italiane. / Si innamorano. Ci sono matrimoni, / e poi anche separazioni e divorzi. /E poi ancora altri matrimoni. Nascono bambini» (da “Io, venditore di elefanti. Una vita per forza fra Dakar, Parigi e Milano” – Baldini&Castoldi 2015). Avanti. Di Paolo Rumiz c’è poco da dire, lo leggiamo da anni sui giornali, leggiamo i suoi libri: raccontatore del mondo, nato in terra di confine, Trieste, e qui tornato a vivere «per invecchiare dove l’Italia si sfrangia, dove l’altro e l’altrove non sono solo promesse. Un aldilà che si vede». E di “Sconfinare” potrei/vorrei parlare/scrivere per ore, perché mi ha decisamente preso, a tratti commosso. Non farei certo un favore a Donatella Ferrario svelando tutto.

​Mi piace concludere con un passaggio su Antonia Arslan, scrittrice padovana di origine armena. Il ricordo di vacanze dell’infanzia durante le quali il nonno paterno, Yerwant, il patriarca, le raccontava una storia antica che la riguardava: la storia della sua famiglia e del massacro della masseria delle allodole. Un regalo speciale, una fiaba che era la sua fiaba, con fate e orchi. Suoi. Il nonno l’aveva offerta a lei sola, che intuiva l’investitura ma che era pur sempre bambina. I semi gettati dai cantastorie saggi solitamente attecchiscono, magari dopo molti anni. L’Oriente lavorava in lei carsicamente accanto all’Occidente materno in cui Antonia viveva. Il popolo armeno umiliato e annientato faceva sentire la sua voce. Dopotutto era solo questione di tempo. I morti sono pazienti.

​Donatella, dunque, ci dona, tra le altre cose, un bell’antidoto contro paura. Proprio oggi, adesso che ci rendiamo conto di quanto la paura, insieme al sonno della ragione, generi mostri. No grazie, abbiamo già dato.

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