Storia

Ernesto Galli Della Loggia: Credere, tradire, vivere

20 Marzo 2017

Un modo diverso e, ad un tempo, particolarmente efficace di riflettere su questi settant’anni di storia repubblicana al di là delle versioni di parte accreditate e autorevolmente legittimate da un ceto intellettuale troppo spesso prone all’egemonia culturale di una sinistra faziosa e intollerante. Si potrebbe sintetizzare in questi termini l’impegnativo saggio “Credere, tradire, vivere” di Ernesto Galli Della Loggia edito per i tipi de Il Mulino. Diverso perché per raccontarne le vicende politiche e sociali ha tenuto come riferimento la sua vicenda personale, quella di un intellettuale inquieto e curioso sulla cui formazione hanno pesato le letture obbligate che versioni ideologiche dei fatti hanno, nel tempo, confezionato. L’intreccio fra vicenda personale, della quale hanno parte rilevante anche i sentimenti, e vicende pubbliche, però, lungi dallo sminuire il valore scientifico dell’analisi, la rende più viva e, perfino, appassionata e, pertanto più vera. Potremmo definire l’opera, un percorso personale ma, anche, pubblico; un lento ma deciso cammino sulla strada della liberazione o della rivisitazione di quelli che sono stati costruiti come elementi fondativi dello Stato democratico nato dalla sconfitta del fascismo. In questo senso, a nostro avviso, non è senza significato,che proprio il sottotitolo del libro rechi la frase “un viaggio negli anni della Repubblica”. Ecco allora che balza in primo piano il termine “cambiamento” un termine che la cultura dominante, dopo averne maliziosamente travisato il senso, ha espunto dal proprio vocabolario demonizzando o delegittimando riflessioni e opinioni non conformi al pensiero corrente o censurando, senza farsi scrupolo alcuno di utilizzare linguaggi spesso lontani da quel minimo di fair play che rende civile il dibattito, comportamenti giudicati incompatibili con la prassi consolidata.

Galli Della Loggia – che di questi cambiamenti, che sono poi maturazioni frutto della presa d’atto della insufficienza delle narrazioni correnti, è stato  protagonista – rivendica il diritto dissentire in nome della propria onestà intellettuale che sta alla base della sua autonomia culturale. Ma proprio questa onestà intellettuale, rivela con certo disappunto l’autore, è stata assente nella gran parte degli intellettuali italiani, anche quelli più accreditati come il filosofo Norberto Bobbio che, diversamente da quel che fece Croce, solo in modo timido si è confrontato con suoi comportamenti imbarazzanti risalenti al periodo fascista. Piuttosto si è registrata la reazione fuori le righe di personaggi che di quel passato, aprioristicamente, non intendono parlare accettandone la versione ufficiale ne fa, senza possibilità critica, “un puro simulacro  del male”. Una discussione su cosa sia stato realmente il fascismo, sulle responsabilità che della sua nascita portò soprattutto la sinistra massimalista, sul fatto che godette, soprattutto negli anni che vanno dal ‘29 al ’38, di un consenso di massa è stata, infatti, considerata eresia o becero revisionismo e chi ha tentato di avviarlo è stato“ipso facto escluso dall’area democratica”. Quel passato andava semplicemente cancellato impedendo così nel nostro Paese quando è avvenuto in Germania a proposito del nazismo e cioè di elaborare il concetto di colpa collettiva. E il dopoguerra con i suoi stereotipi con una sacralizzazione della Resistenza, di quell’antifascismo divenuto strumento di legittimazione del comunismo”, che impediva anche qui ogni e qualsiasi discussione sulla stessa e l’edificazione come forza del progresso della sinistra comunista, il coltivare quello che De Caprariis chiama “un conformismo  filocomunista ammantato di fiera indipendenza di giudizio” proprio quello che porta ad identificare “l’Italia arcaica e retrograda con l’Italia cattolica. E questa, a sua volta, con l’aborrita Democrazia cristiana”.

Così, si creò il mito, il riconoscimento di una superiorità culturale, che ha determinato l’egemonia, del partito comunista, la demonizzazione di chi formulava critiche al comunismo, la fomentazione aprioristica dell’antiamericanismo. Un’egemonia che contemplava il rito dell’esclusione e dell’inclusione, chi formulava critiche e abbandonava la sinistra veniva, nella migliore delle ipotesi, considerato un”revisionista” o un “traditore” mentre  a chi invece si convertiva ed accettava la vulgata ufficiale veniva immediatamente riconosciuta la patente di democraticità e poteva godere, perfino, della remissione dei peccati. Nessuna possibilità di aprire un dibattito sulla democraticità del partito di Togliatti prima e poi dei vari Longo, Natta e, anche Berlinguer, accettazione supina, il PSI ne era esempio manifesto con la sua storia di sottomissione, della vulgata ufficiale. La cartina di tornasole di questo sistema è l’entrata in scena di Bettino Craxi, il quale diede “inizio alla rottura definitiva dell’unità culturale e più ancora antropologica che aveva sempre caratterizzato nel suo fondo la sinistra italiana e insieme…anche la prima Repubblica”. Craxi rompe, infatti,  l’incantesimo, quello che dava per scontato tutto quanto si è scritto sopra,  e per questo motivo, già prima delle magagne e delle malversazioni delle quali purtroppo si rese colpevole o garante, viene attaccato con un violenza che non trova precedenti nella storia della prima Repubblica. Craxi viene considerato reo di assolvere la sinistra dall’abbraccio soffocante della cultura leninista alla quale, nonostante distinguo tattici, il PCI legittimato dall’intellighenzia democratica ivi compresi i democristiani , resta tuttavia fortemente abbarbicato. Ed allora il richiamo del mito antifascista, la chiamata a raccolta contro, l’evocazione, fantasma sempre presente, del ritorno dell’uomo forte e quindi della dittatura. Craxi fallisce perché viene travolto dalla incapacità di mettere un freno al degrado, nella sua stagione la corruzione “era sul punto di arrivare al culmine”.

E’ quello, infatti,  il tempo della cosiddetta “questione morale”, agitando la quale il PCI si ritaglia il ruolo di “unicum, incontaminato e incontaminabile, la pepita d’oro nella melma del fiume.” In realtà, però, un falso e un’occupazione abusiva di un ruolo che non gli spetta perché, senza parlare dei finanziamenti sovietici che furono erogati fino alla scomparsa dell’URSS, la questione morale era fortemente presente anche nel PCI,  lo stesso Tatò, vicinissimo a Berlinguer segnalava infatti che “una questione morale … è aperta anche dentro il nostro partito”. Corruzione e tangenti al PCI seguivano triangolazioni che ben difficilmente potevano essere evidenziate sempre che ci fosse stato l’interesse degli stessi inquirenti a scoprirli. Nessuno, però, attenzionò più di tanto la vicenda mentre intellettuali e opinione pubblica, bypassando la natura strumentale della “questione morale”, ben instradata dai mezzi di comunicazione, accettò supinamente l’idea della “diversità” comunista né alcuno. La penna di Galli Della Loggia, non risparmia nulla, ma soprattutto ci ricorda come quei vizi d’origine, restano sempre presenti nella nostra cultura politica. La vicenda attuale del PD e il livore che soprattutto intellettuali progressisti hanno rivolto nei confronti di Renzi, ne è non solo un retaggio ma una evidente manifestazione. Contro Renzi sono stati infatti tirati fuori gli stessi argomenti usati per Craxi e che hanno contraddistinto il dibattito politico italiano, la sua voglia di cambiamento è stata infatti considerata perfino eversiva, perché l’immobilismo è stata la cifra politica della storia repubblicana, e chi esce o usciva da questo recinto, non poteva che essere considerato un traditore.

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