Storia

Emanuele Felice: “Perché il Sud è rimasto indietro”?

12 Maggio 2015

Alla lunga un meridionale che ama leggere e riflettere diventa fatalmente  un meridionalista. Non uno che ha particolari orgogli o autostime intendo dire – si è quel che si è, e si è meridionali così come si respira-, piuttosto  un dolente osservatore della condizione del Sud nel quale vive, o, come nel mio caso, dal quale è andato via  dal quel dì. Se, come dice il Poeta «Più nessuno mi porterà nel Sud»,  in verità un po’ di Sud te lo porti sempre dappresso ovunque tu vada. C’è pertanto nella biblioteca personale del meridionale, giocoforza diventato “meridionalista”,  uno scaffale dove sono raccolti i libri che l’hanno aiutato a interrogarsi su questo “rompicapo” che è il Mezzogiorno d’Italia. Nella  mia libreria lo scaffale del dolore, oltre alle consolazioni di Verga, Brancati, Pirandello, Sciascia, Striano che non mi abbandonano mai, ci sono i saggi dai titoli problematici o afflittivi che rimandano a inghippi, a interrogativi, a grovigli, a questioni, a gliuommeri senza fine. Torna spesso il termine di arretratezza come  nel libro di Banfield (Le basi morali di una società arretrata) o come in quello di  Alexander Gerschenkron (Il problema storico dell’arretratezza economica , e se apri il Gramsci della “Questione meridionale” ci trovi termini come “composizione demografica irrazionale”, “disgregazione sociale” e altre diagnosi infauste.

Adesso giunge  questo libro di Emanuele Felice  che reca già nel titolo l’intenzione di spiegarci Perché il Sud è rimasto indietro. Già indietro. Rispetto a che cosa? Alla modernità e allo sviluppo. E qui il meridionalista che c’è in noi e che  da tempo è entrato in uno stato di angoscia, sa che lo sviluppo è come un dio capriccioso, c’è in alcune nazioni e in altre no, e talvolta c’è in una nazione ma non dappertutto. Ancora:  c’era un tempo e adesso non c’è più, e nessuno sa se mai tornerà un giorno e che cosa occorra fare per propiziarne il ritorno. Il punto allo stato attuale – e nel mio caso lo attesta l’annuale soggiorno estivo –  resta quello che Felice pone in esergo alla sua indagine: «Il Mezzogiorno oggi non solo continua a presentarsi più povero, arretrato nelle condizioni di vita, nei diritti sociali e nelle libertà civili; ma non sembra nemmeno avere trovato una narrazione, ancorata all’evidenza storica, che sappia dare conto di questo suo “fallimento”, e che sia la premessa indispensabile, di un possibile riscatto».

Quali le ragioni di questa perdurante condizione  che a far data 1861 conta ormai più di 150 anni? La  riflessione di Felice comincia già con nitidezza sorprendente. Nel repertare le risposte a quella domanda di fondo il nostro storico economico evidenzia in apertura di analisi  due blocchi di risposta che poi sono sulla bocca di tutti. La prima, accusatoria, recita: è colpa dei meridionali, la seconda, assolutoria:  «è colpa di altri». La prima tesi accusatoria ha una declinazione forte: «i meridionali sono geneticamente inferiori». È una tesi che ebbe il suo momento di diffusione nel tardo Ottocento inizio Novecento in ambiente positivista e più o meno scientifico (Lombroso, Niceforo ecc) e qualche volta credo ristagni ancora nelle menti di molti. Segue una tesi accusatoria  debole. « Non sono inferiori geneticamente ma hanno uno scarso civismo e un debole impiego del capitale sociale». È la tesi del “familismo amorale” di Edward C.Banfield e di Robert Putnam; quest’ultimo  diede a quella  celebre tesi uno sfondo mentale-culturale storico tale da farla risalire all’Età dei Comuni –  esperienza  ignota  al Sud – e la cui assenza avrebbe determinato una minore “tradizione civica” nel Mezzogiorno che si sarebbe  trascinata fino a oggi. Putnam infatti registra il fenomeno all’atto della fondazione delle Regioni e del loro maggiore o minore “rendimento” a seconda delle “tradizioni civiche” locali, più forti al Nord e quasi inesistenti al Sud.

C’è poi la tesi assolutoria. Anche qui una declinazione forte: «Il Sud è depresso e sottosviluppato perché è stato sistematicamente sfruttato e spogliato delle sue risorse da un Nord rapace e colonialista». È la tesi che certa pubblicistica sudista e revisionista ha sviluppato con grande consenso di pubblico negli ultimi decenni (un nome per tutti Pino Aprile e il suo libro Terroni) ma che ha avuto consensi seppur  meno trancianti presso la storiografia liberale come quella di Rosario Romeo o Francesco Saverio Nitti.   La declinazione assolutoria debole è quella che risolve la storia in geografia (secondo la formula di Jules Michelet) e che sposta la responsabilità del mancato sviluppo a condizioni geografiche svantaggiate: un territorio privo di risorse naturali,  l’assenza di pianure irrigue, la prevalenza di montagne scabre e improduttive, la lontananza dai mercati.

Felice non tarda a scoprire le carte e a offrire la sua interpretazione. Se le due interpretazioni forti sono da respingere in toto, quelle deboli hanno qualche ragione in sé, ma vanno ugualmente rigettate, ed ecco il cuore della sua risposta:  non si tratta di distinguere tra meridionali e settentrionali, ma fra «quanti dentro la società meridionale, hanno migliorato la propria posizione godendo di rendite e privilegi, e quanti invece, la stragrande maggioranza, si sono ritrovati  vittime dell’iniquo assetto socio-istituzionale del Mezzogiorno». La risposta si affina dunque nel riconoscere la formazione di un blocco storico che penalizzerà il Mezzogiorno sin dal primo momento della unificazione.  Felice tange  in alcuni punti le analisi di Gramsci e Salvemini senza sposarle in toto ma rinnovandole alla luce delle analisi e del formulario di studiosi quali  Acemoglu e Robinson, secondo i quali a fare la differenza è l’uso delle istituzioni che può essere o di tipo inclusivo  quando cioè  le élite favoriscono la partecipazione dal basso dei cittadini e promuovono attivamente  la crescita economica e civile,  oppure di tipo estrattivo, ed è il caso delle classi dirigenti (aristocrazia e borghesia) del Mezzogiorno  le quali si sono limitate ad accettare passivamente la modernizzazione, quando non hanno potuto apertamente osteggiarla. «Chi ha soffocato il Mezzogiorno sono state le sue stesse classi dirigenti – una minoranza privilegiata di meridionali – che ne hanno orientato le risorse verso la rendita più che verso gli usi produttivi, mantenendo la gran parte della popolazione nell’ignoranza […] e in condizioni socio-economiche che favoriranno i comportamenti opportunisti».

Non credo di aver recato un danno di spoiler nello svelare il finale della fitta trama argomentativa di Felice, nel rivelare ossia il “colpevole” e anche il momento esatto  in cui è avvenuto il misfatto,  che sarebbe grosso modo all’atto dell’eversione della feudalità   – inizi dell’800 – proprio il momento storico in cui si formano i grandi aggregati criminali delle mafie meridionali, i quali  si aggiungeranno all’opportunismo estrattivo dei suoi ceti dirigenti, alla sostanziale “modernizzazione passiva” del Mezzogiorno che ancora oggi è causa di ristagno economico, lentezza o resistenza  nella e alla modernizzazione sociale, incompletezza civile.  Non credo di aver guastato il piacere della lettura di un libro come questo che  raccomando vivamente  perché la sua attrattiva risiede nell’articolatissima e ricchissima argomentazione storico-economica,  che in alcuni tratti mi ha letteralmente rapito per forza logica, robustezza di analisi,  capacità scientifica nel saper governare una mole immensa di dati statistico-economici (molto tecnica ma non meno affascinante la ricostruzione ex post dei dati relativi il PIL come anche gli indici di istruzione, alfabetizzazione, igienico-sanitari ecc delle diverse regioni italiane). Il libro si raccomanda per la brillantezza dell’argomentazione e la capacità di governo di una ormai immensa letteratura specialistica qual è quella meridionalistica, elementi di cui si resta ancor più stupefatti allorché si apprende che Felice è un giovanissimo studioso  (anch’egli costretto a emigrare all’estero, a Barcellona in Spagna ove insegna storia economica). Che dire: raramente mi sono imbattuto in un libro così scintillante, informato, acuto, esaustivo, per certi versi irresistibile.  Credo, senza tema di esagerazione alcuna,  che la “questione meridionale” trovi in questo lavoro un punto di svolta interpretativo difficilmente eludibile o che comunque da questo lavoro occorrerà  partire per successive e particolareggiate analisi.

 EMANUELE  FELICE, Perché il Sud è rimasto indietro, Il Mulino, Bologna 2014, a stampa € 16,00, e-book € 10,99.

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