Storia

Ebrei in Germania 1933-1942: voci dal mondo dei sommersi

17 Gennaio 2023

La distruzione degli ebrei di Germania è stata raccontata molte volte, eppure Dal giardino all’ inferno è un libro che segna una novità.

Certamente influisce il lavoro di Mara Fazio. La traduzione delle lettere quasi quotidiane delle voci protagoniste ci consente di seguire la storia in prima persona, condividendo la commozione, l’angoscia, le esili speranze, la dignità, l’impotenza e il terrore.

Ma non è solo la natura di queste lettere.

Si potrebbe riassumere la vicenda testimoniata da questo lungo epistolario a senso unico e in gran parte di una sola voce (ovvero sostanzialmente costituito dalle lettere in arrivo dalla Germania da Lina Moos, bisnonna di Mara Fazio, a sua nipote, madre di Mara) come una lunga testimonianza dello smarrimento.

Quello che questo libro consente è di fare in modo che il lettore lentamente entri nello svolgersi della storia consentendo così di prendere la misura di che cosa significa «vivere in tempi bui»

Le lettere cominciano nel 1933 alla vigilia dell’ascesa al potere di HItler fino al giugno 1942 quando Lina Moos scrive l’ultima cartolina.

Queste lettere ci accompagnano lentamente in un percorso che costituisce una lenta discesa agli inferi, lo srotolarsi lento di un film di cui noi conosciamo la scena finale, ma che, nondimeno appare ogni volta non scontato e, allo stesso tempo, prevedibile. In ogni caso un percorso in cui la scrittura in tempo reale ci consegna allo stesso tempo il suo dispiegarsi, ma anche la convinzione da parte di chi subisce di potergli resistere.

Poi come sempre capita a un certo punto s’inserisce una scena, poco raccontata, ma che definisce una condizione che ritorna nelle vicende di tutti coloro che improvvisamente si trovano a vagare senza un luogo che li accolga.

Siamo alla fine dell’ottobre 1938, in Europa la condizione è quella della gioia perché l’illusione è che la svendita della Cecoslovacchia alla Germania nazista consumata a Monaco di Baviera il 30 settembre 1938 fa dire a molti che la guerra si sia allontanata.

Non è così. Un nuovo tempo sta per prendere forma.

«Nella notte del 8 ottobre [1938] circa 15.000 ebrei polacchi che vivevano in Germania e che dopo il 1933 avevano perso la cittadinanza tedesca ottenuta dopo la prima guerra mondiale vengono violentemente estromessi dalle loro case e accompagnati alla frontiera polacca. È permesso loro di portare con sé solo 10 marchi e gli abiti che hanno addosso. Arrivati alla frontiera vagano a ungo nella terra di nessuno, perché le autorità polacche si rifiutano di accoglierli. Per evitare di riprenderli, il governo polacco emana una legge secondo la quale il passaporto polacco non era più valido se il proprietario aveva vissuto più di 5 anni al di fuori della Polonia.» [pp. 76-77]

È uno dei passaggi con cui Mara Fazio fa avvicinare il lettore all’atmosfera del 9-10 novembre 1938, la «Kristallnacht», la notte in cui in tutta la Germania le SA (le squadre d’assalto del partito nazista al potere) distruggono le vetrine dei negozi degli ebrei, incendiamo le sinagoghe, uccidono (il numero ufficiale dichiarato al governo di Adolf Hitler parla di 91 ebrei uccisi e 30000 imprigionati).

In breve il passaggio definitivo che introduce alle politiche di sterminio.

Così Lina Moss a alla figlia Elisabeth,27 dicembre 1938:

«Miei cari, vi ringrazio delle vostre care lettere da cui colgo sempre la preoccupazione per me e per il mio futuro… A emigrare, naturalmente, non posso neppure pensarci, perché dov’è che accolgono una persona anziana e completamente priva dimezzi?» [pp. 86-87].

Poi la situazione peggiora fino appunto a quell’ultima lettera (sa che è l’ultima perché la notifica di deportazione gli è già stata consegnata. Significativamente non ne parla) e in cui scrive: «… promettiamoci a vicenda di resistere finché è possibile in un modo o nell’altro» [p. 159].

Sembra un arrivederci. In realtà è un addio,consapevole.

Talvolta le ultime scene stentano ad essere percepite come scene ultime, ma accade quando almeno uno dei protagonisti sa che la sua è una condizione di non ritorno e una frattura non più ricomponibile si è creata. La stessa sensazione che Giacomo Debenedetti fissa nella chiusa del suo 16 ottobre 1943.

«Il treno si mosse alle 14 – racconta Giacomo Debenedetti – Una giovane che veniva da Milano per raggiungere i suoi parenti a Roma racconta che a Fara Sabina (ma più probabilmente a Orte) incrociò il «treno piombato», da cui uscivano voci di purgatorio. Di là dalla grata di uno dei carri, le parve di riconoscere il viso di una bambina sua parente. Tentò di chiamarla, ma un altro viso si avvicinò alla grata, e le accennò di tacere. Questo invito al silenzio, a non tentare di rimetterli nel consorzio umano, è l’ultima parola, l’ultimo segno di vita che ci sia giunto da loro.»

Poi resta solo il vuoto con cui provare a fare i conti.

 

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