Storia

Ebraismo e arte contemporanea, il libro antisemita di Mario Costa

16 Novembre 2020

Il titolo del libro mi ha incuriosito perché è davvero una questione annosa trattare l’arte contemporanea in rapporto all’ebraismo, quindi con fiducia ho cominciato a leggere questo piccolo pamphlet dal sottotitolo ancora più accattivante: Clement Greenberg, Arthur Danto, Isidore Isou, Abraham Moles. Quattro nomi messi in fila, i primi due sono i celebri critici d’arte americani, il primo teorizzatore dell’Espressionismo astratto, Danto famoso invece per le sue analisi filosofiche su Warhol e la fine dell’arte. Isou è stato il fondatore del Lettrismo, infine Moles è stato un pioniere negli studi di scienze dell’informazione e della comunicazione in Francia. Cosa accomuna questi quattro nomi? Il fatto di essere tutti ebrei. Già questa scelta avrebbe dovuto mettermi in guardia, ma mi sono fidata. Mi sono fidata anche dall’autorevolezza della casa editrice e del comitato scientifico che segue e vaglia i testi pubblicati “sottoposti a un processo di peer-review”, come si legge in prima pagina, ancor prima del frontespizio.

Compongono il comitato nomi prestigiosi, tutti docenti universitari di rilievo, e mi salta agli occhi anche quello di Giuseppe Di Giacomo, stimatissimo professore de La Sapienza di Roma. Così mi ricordo di aver letto, tra le altre cose, un gran bel libro curato da lui e da Claudio Zambianchi, dal titolo Alle origini dell’opera d’arte contemporanea. Testi di Fry, Schapiro, Benjamin, Greenberg, Steinberg, Danto, Krauss, Adorno (Laterza, 2008). Benché i titoli possano sembrare simili, c’è una differenza strutturale e concettuale enorme tra i due volumi. Il libro di Di Giacomo e Zambianchi raccoglie nove saggi da considerarsi a pieno titolo le pietre miliari della riflessione internazionale sull’arte del XX secolo, corredati da un’introduzione e da una postfazione degli autori. Una scelta diametralmente opposta è quella di Costa perché non solo non riporta neanche uno stralcio (se non velocemente e in qualche nota) degli scritti degli autori citati in copertina, ma fa capire fin dall’introduzione dove vuole andare a parare: la sua è una questione di razza, ebraica per la precisione. Nelle centocinquanta pagine che seguono è tutto un elenco di nomi di ebrei: artisti, critici, mecenati, direttori di musei, curatori, mogli, amanti, amici. Un elenco tanto inquietante (come non avere un déjà-vu) quanto violento nell’accusa che l’autore muove agli ebrei. Secondo lui, infatti, “la storia dell’arte contemporanea è stata, nella sua genesi e nei suoi sviluppi, determinata dal divieto mosaico, ovvero dalla volontà ebraica di rifiutare e distruggere tutto quanto ha in sé la possibilità di essere occasione di un culto, in qualunque modo idolatrico” (pp.8-9).Già dalla lettura di queste prime righe si evince la faziosità dell’autore. Non mi risulta in alcun modo che gli ebrei abbiano distrutto opere d’arte in nome della legge mosaica, semmai purtroppo è stato il contrario, (inutile ricordare i roghi nazisti, tanto per dirne una). Costa si riferisce evidentemente al passo dell’Esodo che recita così: “Tu non farai statue o altre figure di ciò che sta in cielo o di ciò che sta in basso in terra o di ciò che è nell’acqua sotto la terra”, e da qui argomenta la sua teoria secondo la quale tutta l’arte contemporanea è stata sotto il giogo degli ebrei che hanno condizionato e direzionato questa seguendo motivazioni prettamente halakhiche, ovvero andando dietro alle normative religiose. Insomma secondo Costa, saremmo nuovamente di fronte ad un cospirazione giudaica, non molto dissimile dai Protocolli dei Savi di Sion. Questa volta però non tocca la politica (anche se ad un certo punto parla anche della CIA) ma la conquista dell’arte contemporanea occidentale, rivolgendosi particolarmente al secondo occidente, quello americano. Perché? Facile, si auto-risponde l’autore: “Perché tutto questo è sostanzialmente avvenuto negli Stati Uniti, non sembra difficile da capire: la fuga dalle dittature, specie dal nazismo, causò una vera migrazione di ebrei, e soprattutto di intellettuali ebrei, quelli cioè che avevano i mezzi e le possibilità per farlo, verso gli Stati Uniti; le nuove “avanguardie” furono il risultato di questa concentrazione giudaico-intellettuale” (pp.152-153). Insomma, secondo Costa se l’arte contemporanea è ciò che è, se è stata depauperata dell’immagine a favore dell’idea, passando dall’aisthesis al significato, se è stata smaterializzata e contaminata dai linguaggi tecnologici, è tutta colpa degli ebrei, degli artisti, dei critici, dei filosofi ebrei (e chi non lo è ha comunque subito la loro influenza, precisa l’autore). Ma attenzione, prosegue Costa alla fine dell’introduzione “questo libro potrebbe far gridare all’antisemitismo, ad un ritorno dell’entartete Kunst o della Addled Art; niente di tutto questo: gli ebrei mi sono perfettamente indifferenti” (p. 10). Ecco, questa è un’altra parola che mi fa venire i brividi. Ce lo ha spiegato in tutti i modi possibili Liliana Segre, facendo anche apporre la scritta a caratteri cubitali “Indifferenza” sul muro dell’atrio del memoriale della shoah di Milano, poiché, spiega la Senatrice, in questa parola si concentra la quintessenza del motivo per il quale la Shoah è stata possibile, “l’indifferenza è complice”. E poi, a dirla tutta, Costa mi sembra tutt’altro che indifferente alla questione, tanto da fare ricerche certosine con tanto di foto per “scovare” più ebrei possibili al fine di perorare la sua teoria.

Ma seguiamo l’ordine con cui l’autore ci mostra i “fatti”. Dopo aver frettolosamente accennato a Duchamp, ai futuristi e all’avanguardia russa (probabilmente si riferisce a Malevich quando, a pagina 11, dice: “qualcuno aveva già messo mano a qualcosa che con l’arte non aveva più nulla a che fare”?), in maniera sbrigativa, probabilmente perché nessuno di questi era ebreo, passa subito a parlare di Greenberg e dell’espressionismo astratto che abiura la figurazione, “pena il rinnegamento dell’avanguardia”. E qui c’è una bella nota che non posso non citare per intero: “Ci furono invece altri (F. Bacon, L. Freud, B. Shan, E. Hopper, Varlin, R. Guttuso, Balthus…) che passarono indifferenti attraverso le avanguardie per continuare nell’antica pratica della pittura figurativa, ma che non ebbero per questo alcun futuro e, in ultima analisi, alcuna importanza storica” (p.14). Mi domando che storia dell’arte abbia studiato e insegni il prof. Costa. Dopo aver letto questa affermazione avrei voluto chiudere il libro, l’arte contemporanea senza Bacon e gli altri citati avrebbe perso alcune tra le sue espressioni più grandi. Ma ho proseguito nella lettura, anche se a fatica. “Con Greenberg – spiega Costa in nota – la giustificazione diventa tutta artistica; la sua strategia è quella di eliminare dalla pittura ogni connotazione religiosa e di considerarla solo dal punto di vista estetico. […] In questo modo la motivazione religiosa iconoclastica, che è quella vera, del nuovo astrattismo, viene occultata e rimossa […]” (p. 66). Insomma Greenberg avrebbe occultato la vera motivazione che avrebbe mosso la ricerca degli espressionisti astratti, non a caso, specifica l’autore, quasi tutti loro ebrei. E qui appare anche una foto d’epoca del gruppo corredata da una lunga didascalia di Costa in cui ogni nome è seguito da una parentesi con scritto “ebreo” (p. 72). Sono sei su quindici. Per Hedda Sterne, unica donna nella foto, la parentesi è più lunga “(ebrea, moglie di Saul Steinberg, ebreo)”.

Un altro personaggio che, seguendo sempre il ragionamento del tutto privo di fondamento scientifico, avrebbe manipolato e deviato il significato dell’arte contemporanea è Isidore Isou, ebreo di origine rumena, trasferitosi a Parigi nel 1945, aveva secondo Costa come obiettivo esplicito e dichiarato la “giudaizzazione del mondo” e dunque anche dell’arte, stabilendo che questa, ovvero l’arte, si può fare con qualunque cosa e che qualunque cosa può diventare arte teorizzando così nel 1952 la meca-estetica. Tra questi materiali, prosegue Costa, ci sono anche esseri viventi, cadaveri, sangue, escrementi e così via. In nota l’autore specifica che si riferisce, in ordine, a De Dominicis quando espone un mongoloide alla Biennale di Venezia del 1972; a von Agens che porta in giro per il mondo cadaveri autentici “plastificati”; a Marc Quinn che fa sculture col sangue e con le feci; a Manzoni con la sua Merda d’artista del 1961. Gli artisti citati non sono ebrei (forse per questo sono messi in nota?) ma in ogni caso Isou ha la colpa, secondo Costa, di aver in qualche maniera legittimato queste pratiche. Ricordo così, solo a titolo informativo, che Fontana, ovvero il primo ready made di Duchamp risale al 1917, anticipando di non pochi anni le teorie di Isou. Ma anche qui Costa prontamente spiega, sempre in una nota, che Duchamp, come Picabia, è stato influenzato dall’ebreo Tristan Tzara.

Arrivando agli anni Sessanta e spostandoci di nuovo in America, Costa ora punta il dito sul “completamente ebreo” Danto, accusato di aver appoggiato la Pop Art sostenendo che quello che conta veramente è il significato che si può effettivamente mettere in opera con qualsiasi cosa, come dimostra l’installazione di Brillo Box di Andy Warhol alla Stable Gallery di New York nel 1964. Anche in questo caso Costa tiene a sottolineare che Warhol non sembrerebbe essere ebreo ma c’è chi lo dà per tale, e comunque –scrive Costa – la sua infanzia è popolata da ebrei (sic!). Dunque, Danto, come Greenberg e Isou, ha seguito le esigenze della Halakhah liquidando la mimesi a favore di un processo mentale, che si trasformerà in idea con la Conceptual Art (nemmeno a dirlo, anche qui parte l’elenco degli artisti concettuali ebrei, e poi dei minimalisti, di Fluxus e via dicendo). Sento il dovere dispiegare brevemente il pensiero di Danto. Nella Trasfigurazione del banale, uscito in America nel 1981 ma con quasi due decenni di gestazione, il critico si pone la domanda: perché mai queste cose sono da considerarsi arte? E nel caso specifico, come mai le scatole di Brillo Box di Warhol sarebbero arte mentre le Brillo Box del supermercato non lo sono? Due cose percettivamente identiche possono avere uno statuto ontologico diverso. Una è un’opera d’arte, l’altra è un oggetto. Se a livello percettivo non c’è alcuna diversità, la differenza sta nella proprietà relazionale. Dubito che Danto abbia mosso questa tesi per andare incontro all’aniconismo ebraico visto che, come lui stesso spiega, le opere d’arte sono rappresentazioni e come tali richiedono un’interpretazione che ne colga i significati, ma non basta, hanno bisogno del contributo del fruitore per essere attivate, quindi della proprietà relazionale.

Il terzo capitolo del libro si intitola Ebraismo e tecnologia e ovviamente apre con Walter Benjamin e L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. L’argomento di Benjamin è noto a tutti: si parla di “perdita dell’aura” nell’era della riproducibilità tecnica che fa sì che l’opera, riprodotta in sede impropria viene desacralizzata, perde il suo valore cultuale assumendo invece un valore espositivo estetizzante.  Chiaro per tutti, non per Costa evidentemente che travisa un filino quando scrive: “la tecnologia può valere come un potenziale territorio di una produzione, diversamente artistica, a disposizione della ortodossia ebraica”(p.128). Chiude il capitolo un intervento frettoloso e poco chiaro su Moles e la Computer Art, non mi dilungo perché avrete ormai capito dove vuole andare a parare Costa.

La conclusione merita invece di essere citata: secondo Costa gli ebrei avrebbero distrutto ciò che restava dell’arte occidentale in modo consapevole e organizzato, e ciò è accaduto dall’abbattimento dei ghetti, quando è stata data loro la possibilità di emanciparsi. Così hanno cominciato a cambiare la sostanza dell’arte, la sua materia, gli strumenti, tutto per seguire i loro principi religiosi.

Ebbene, credo che questo librino sia una delle cose più antisemite, anzi antigiudaiche che abbia mai letto. Mi indigna e mi angustia pensare che ci siano ancora persone che propinano informazioni distorte e tendenziose. Non esiste un complotto giudaico per la distruzione dell’arte contemporanea, è fantascienza. Il prof. Costa ha riportato arbitrariamente ciò che gli serviva per perorare la sua tesi, tralasciando numerosi non ebrei che hanno avuto un ruolo altrettanto fondamentale all’interno dei movimenti d’avanguardia, ed ebrei che invece hanno abbracciato l’arte figurativa, tanto in pittura quanto in scultura, abbattendo così il principio secondo cui la legge mosaica vieta la rappresentazione delle immagini. Accanto a Pissarro, Chagall, Modigliani, Bakst, Segal, Raphaël, Levi e tanti altri, tuttavia, c’è sempre la presenza dell’antico spirito biblico.

Leggendo questo libro mi viene da pensare che purtroppo sono ancora troppe le persone che ignorano la storia degli ebrei. Una storia raccontata e tramandata attraverso la Torah e i numerosi testi sacri che animano lo spirito ebraico, una storia in cui l’immagine si ritrova in pochi, straordinari esempi. E a proposito di immagini, gli ebrei sono quasi sempre stati raffigurati dall’esterno, dallo sguardo rapace dei carnefici, l’Arco di Tito ne è il simbolo, o nella propaganda antisemita, a partire dall’ebreo dal naso adunco. Anche Costa cade in questo sgradevole stereotipo quando, parlando di Warhol e di come pur non essendo ebreo è come se lo fosse scrive: “poi la questione del naso, non solo quello di Before and After ma anche il suo” (p.93). Costa si riferisce ai disegni in bianco e nero che hanno per soggetto il profilo di due donne e sono ispirati a un annuncio pubblicitario allora in voga che celebrava i vantaggi della chirurgia estetica a cui si sottopose lo stesso Warhol, ma l’autore allude chiaramente ad altro. È dunque chiaro che questo libro, purtroppo non fa che proseguire e alimentare il pregiudizio contro gli ebrei. Per quanto riguarda il Complotto dell’arte, cito l’omonimo testo di Jean Baudrillard (non penso fosse ebreo ma non è mia abitudine andare a cercare il credo religioso, il colore della pelle o l’orientamento sessuale degli autori che leggo), pubblicato nel 1996 in cui spiega come l’arte si sia dedicata ad appropriarsi delle banalità, degli scarti, della mediocrità eleggendoli a valore e a ideologia. L’arte ha perduto irrimediabilmente il suo privilegio e la si trova ovunque. La fine del principio estetico non ha segnato la sua scomparsa, semmai la sua diffusione infiltrandosi ovunque. Questa è l’arte contemporanea, l’arte universale con cui dobbiamo, per nostra fortuna, fare i conti oggi, con o senza ebrei.

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