Storia
Domande alla Liberazione
Forse è arrivato tempo di fare un bilancio senza sconti. Comunque sia arriviamo irrimediabilmente tardi. Mi riferisco alla condizione dei democratici che non guardano il proprio ombelico.
La nostra, intendendo per nostra quella visione di democratici che non hanno al centro solo la preoccupazione del proprio «particulare», ma provano, o almeno si sforzano, di pensar mondo senza dare il primato del comando a quello a cui appartengono,
Stentiamo ancora a prendere in mano la fine della Seconda guerra mondiale. La guardiamo da molti angoli prospettici, ma con difficoltà siam in grado di guardarla «a parte intera».
La questione si staglia su due piani distinti. Connessi, ma distinti.
Il primo piano riguarda la scena che decretiamo come fine della guerra
Il secondo piano riguarda come si intraprendono percorsi incerti di libertà ovvero di ricostruzione di un patto tra attori che si sono combattuti, una parte ha vinto, una è stata sconfitta, ma poi si tratta di costruire una casa per tutti.
Primo piano.
Ci sono quattro fermo-immagine che definiscono la fine della guerra nel 1945.
La prima riguarda l’arrivo degli alleati a Berlino. È la fine materiale della guerra. Anche se poi ognuno si è cercato la sua data di liberazione, nei fatti, quella scena le riassumeva tutte. Diceva chi si era, che cosa si era subìto, chi era il nemico. In quella scena che a lungo è stata celebrata come l’icona dell’idea di libertà, mancavano molte soggettività. O vi erano state incluse senza il loro consenso. In ogni caso l’arrivo degli alleati a Berlino se segnava l’atto di liberazione non era libertà per tutti.
La seconda è quella che è stata messa al centro con il giorno della memoria, il 27 gennaio. La possiamo condensare in questa immagine, dove non ci sono essere umani, ma solo oggetti che erano parte della vita e del corpo di essere umani.
L’abbiamo presa in carica circa mezzo secolo dopo, ma poi in quella scena stentano ad entrare tutte le vittime perché per molti quelle diverse vittime non tutte meritano rispetto. E in ogni caso quel rispetto, anche per quelle riconosciute come tali va «a giorni alterni»
La terza si riferisce alle svariate centinaia di migliaia di madrelingua tedeschi che dal centro dell’Europa si spostano verso la Germania nell’estate 1945, ma anche ai molti milioni di polacchi, ungheresi, boemi, slovacchi, rumeni, bulgari per i quali la fine della guerra non significa libertà, ma solo liberazione da un precedente dominus e arrivo di uno nuovo.
In ogni caso anche la fine di quel dominio 45 anni dopo non ha segnato davvero l’accesso alla libertà, se è vero che per gran parte di quelle realtà il riscatto di liberazione non ha significato una pratica di libertà. Perché app8unto liberazione significa togliersi dalle spalle la precedente oppressione e libertà implica fondare uno stato di diritto dove i diritti sono per tutti.
C’è una quarta scena che ci riguarda ma che non è mai entrata nella memoria collettiva (su questo tema di recente ha richiamato l’attenzione Andrea Brazzoduro).
È il maggio 1945. La guerra è finita. Tutti festeggiano. In Algeria una massa di uomini e donne in nome della partecipazione all’esercito della Francia Libera a fianco di Charles de Gaulle, pensando di aver contribuito alla lotta per la riconquistata libertà della Francia, scende in piazza e rivendica il diritto anche alla propria libertà. Sanno che non sarà un percorso facile, ma sono convinti che quella nuova libertà esista anche perché hanno scelto la parte dove stare e, per alcuni di loro, di combattere dall’inizio per quella parte.
Nelle piazze di Setif, a 300 chilometri da Algeri, un gruppo di manifestanti chiede la liberazione del leader del Partito Popolare Algerino, Messali Hadj. Tutto si svolge pacificamente fino a quando non viene sollevata la bandiera dell’Algeria, vietata dal governatorato generale francese. Di fronte alla polizia che spara sulla folla, esplode la rivolta degli algerini e al termine della giornata si contano 103 morti. Nei giorni successivi: coprifuoco e istituzione della legge marziale, spedizioni punitive, raid aerei contro uomini, donne e bambini costituiscono la quotidianità in Algeria. In poche settimane, sono uccisi dai 6mila agli 8mila algerini (45mila nella memoria collettiva algerina).
Quella storia noi non ce la siamo raccontata, se non in un film – Hors la loi”, di Rachid Bouchareb, presentato al festival di Cannes nel 2010. E quella quarta scena non entra nel nostro pantheon d’immagini. Ancora oggi, settanta anni dopo, quella scena non è capace di sfondare il muro di gomma che la circonda.
È un aspetto del dovere di memoria che si consegna, ancora irrisolto a noi e a quelli dopo di noi.
A onor della verità bisogna anche dire che nessuno, né noi qui, né nel mondo coloniale, è riuscito in tutti questi anni a avere uno sguardo in grado di tenerle tutte e quattro insieme quelle scene che ho richiamato e ad aggiungervi le oppressioni di tanti altri che non sono parte della memoria pubblica, comprese quelle delle vittime dei nuovi poteri nelle ex-colonie.
In breve, la scommessa è che la storia si scriva, si legga, e si ricostruisca “a parte intera”. Il tema non sono le vittime, ma è educare tutti noi, a non pensarsi solo come vittime. Perché questo accada, la memoria da riparazione, deve diventare progetto.
Secondo piano
Ma per scriverla, o almeno per iniziarla a scrivere, occorrono poi delle linee di riflessione che non sono solo come si ripara al torto subìto/inferto, ma come si ricrea patto.
Non ho una ricetta, ma credo che sarebbe interessante provare a confrontarsi con alcuni percorsi culturali che nell’immediato ultimo dopoguerra, almeno per noi qui (quello tra 1945 e inizio anni ’50) hanno provato a riflettere e a far riflettere sulle cose urgenti da fare per provare a ricominciare.
Penso in particolare a un laboratorio, quello del quotidiano “Combat” tra 1944 e 1947 e poi nella riflessione solitaria – ma non risentita – di Albert Camus e la cui conclusione è in ciò che scrive nel 1953: “La libertà non è fatta in primo luogo di privilegi, è fatta soprattutto di doveri”
All’inizio, siamo ancora nel pieno della guerra e del confronto tra collaborazionisti e resistenti il tema è scegliere.
Scrive Camus nel luglio 1944: “E poiché è l’ora degli appelli, anche la Resistenza lancia un appello supremo al popolo francese. Gli dice che non c’è più tempo per riflettere, soppesare o valutare. […] È venuto il momento in cui gli uomini del nostro paese saranno giudicati non sulla base delle loro intenzioni, bensì delle loro azioni, e delle azioni legittimate dalle loro parole”[À Combat, p. 146].
Ma poi a conflitto appena concluso si tratta di stabilire un patto in cui i responsabili paghino ma anche si definisca un percorso di nuova vita. Così a François Mauriac che chiede l’annullamento del reato di collaborazione con il nazismo risponde nell’ottobre 1944:
“Non abbiamo mai chiesto una repressione cieca e spasmodica. Detestiamo l’arbitrio e l’imbecillità criminale. Vorremmo che la Francia mantenesse le mani pulite. Ma proprio per questo auspichiamo una giustizia rapida e limitata nel tempo ossia la repressione immediata dei crimini più evidenti, dopodiché, poiché per ogni cosa occorre sempre venire a patti con la mediocrità, auspichiamo un oblio ragionato degli errori comunque commessi da tanti francesi. È il nostro modo di parlare così tremendo come pensa Mauriac? Certo, non è il linguaggio della grazia. È il linguaggio di una generazione di persone cresciute in mezzo allo spettacolo dell’ingiustizia, di una generazione estranea a Dio, innamorata dell’uomo e risoluta ad assecondarlo contro un destino tato spesso irrazionale. È il linguaggio dei cuori decisi a farsi carico di tutti i propri doveri, a convivere con la tragedia del loro secolo, e a servire la grandezza dell’uomo in mezzo a un mondo di ingiurie e di delitti”. Perché, aggiunge ““Un paese che fallisce nel suo processo di epurazione non può non fallire nel suo processo di rinnovamento. Le nazioni hanno il volto della propria giustizia. La nostra dovrebbe poter mostrare al mondo qualcosa di diverso dalla faccia confusa che sta mostrando”. [À Combat, pp.304-305]
Quel processo rimarrà a metà, ma è importante che si sia mostrato un percorso. Ma ancora più importante è provare a rifondare dei criteri.
Camus li espone in una conferenza dal titolo La crisi dell’uomo [qui a pp. 29-50[ che tiene alla Columbia University il 28 marzo 1946 e che poi ripete più volte nelle settimane della sua permanenza negli Stati Uniti.
La comunicazione è ciò che oggi dobbiamo tenere vivo per difenderci dall’omicidio. Per questo, ora lo sappiamo, dobbiamo lottare contro l’ingiustizia, contro l’oppressione, contro il terrore, perché sono questi tre flagelli a far regnare il silenzio tra gli uomini e alzare tra di loro barriere. Abbiamo passato una lunga notte, adesso sappiamo cosa fare di fronte al mondo dilaniato dalla crisi. Ma che cosa dobbiamo fare?
- Prima cosa. Dobbiamo chiamare le cose con il loro nome e renderci conto che uccidiamo milioni di uomini ogni volta che accettiamo di pensare certi pensieri: un uomo non pensa male perché è un assassino, è un assassino perché pensa male. Perciò si può essere un assassino senza apparentemente avere mai ucciso ed è così che siamo più o meno tutti degli assassini. La prima cosa è quindi il rifiuto puro e semplice con i pensieri e con l’azione di qualunque pensiero realista e fatalista. [p. 43]
- La seconda cosa da fare è decongestionare il mondo dal terrore che vi regna e che impedisce di pensare bene. E poiché ho sentito che proprio in questa città [New York, ndr] si tiene una sessione importante delle Nazioni Unite, potremmo suggerirle che il primo testo importante scritto da questa organizzazione mondiale proclami solennemente dopo il processo di Norimberga la soppressione universale della pena di morte. [pp. 43-44].
- La terza cosa da fare è ridimensionare il ruolo della politica attribuendole il ruolo secondario che le spetta: non si tratta infatti di dare a questo mondo un vangelo, un catechismo politico o morale La grande iattura della nostra epoca è invece che la politica pretende di fornirci un catechismo, una filosofia completa e persino, talvolta, un’arte di amare, ma il ruolo della politica è far funzionare le cose, non risolvere i nostri problemi interiori. Ignoro per quel che mi riguarda, se esista un assoluto, ma so che non è di ordine politico. L’assoluto non è qualcosa che ci riguarda collettivamente, riguarda ciascuno di noi singolarmente e occorre impostare i rapporti reciproci affinché ciascuno abbia l’agio interiore di interrogarsi sull’assoluto. La nostra vita può anche appartenere agli altri ed è giusto donarla quando necessario, ma la nostra morte appartiene solo a noi e questa è la mia definizione di libertà. [p. 44]
- La quarta cosa è cercare di creare a partire dalla negazione. I valori positivi che permetteranno di conciliare un pensiero negativo e le possibilità di un’azione positiva: è il compito che spetta ai filosofi e del quale ho fornito solo un accenno [p.44].
- La quinta cosa è capire che questo approccio implica la creazione di un universalismo in cui potranno ritrovarsi tutti gli uomini di buona volontà Per uscire dalla solitudine occorre parlare, ma occorre parlare in modo schietto, non mentire mai e dire tutta la verità, naturalmente tutta la verità che si conosce. Ma si può dire la verità solo in un mondo in cui questa è definita e fondata su valori comuni a tutti gli uomini. […] A nessun uomo al mondo, né oggi né mai è permesso decidere che la sua verità è così giusta da poter essere imposta agli altri. Solo la coscienza comune degli uomini, infatti, può nutrire una simile ambizione e occorre ritrovare i valori in cui vive questa coscienza comune. La libertà che, per finire, dobbiamo conquistare è il diritto di non mentire. Solo a queste condizioni conosceremo le nostre ragioni di vivere e di morire. :..” [pp. 44-45].
“Questo è, per quel che mi riguarda, il punto a cui siamo giunti e forse non era il caso di arrivare tanto lontano per arrivare qui, ma dopo tutto la storia degli uomini è la storia dei loro errori e non la storia delle loro verità, la verità forse è come la felicità è semplice e non ha storia. Significa forse che tutti i problemi sono risolti? Assolutamente no. Questo mondo non è né più migliore né più ragionevole, non siamo ancora usciti dall’assurdo, ma abbiamo perlomeno una ragione per provare a cambiare la nostra condotta ed è proprio quella ragione che finora ci mancava. Il mondo continuerebbe ad essere un posto desolante se non ci fosse l’uomo, ma l’uomo c’è e ci sono le sue passioni i suoi sogni e la sua comunità. Alcuni di noi in Europa, uniscono una visione pessimistica del mondo a un profondo ottimismo riguardo all’uomo. Non abbiamo la pretesa di sottrarci alla storia perché nella storia ci siamo già, pretendiamo solo di lottare dentro la storia per preservare dalla storia quella parte dell’uomo che non le appartiene, ovvero l’amore, la solidarietà, la felicità. Vogliamo solo ritrovare una civiltà in cui l’uomo senza distogliersi dalla storia non le sarà più asservito, in cui il dovere che ogni uomo avrà nei confronti degli altri uomini sarà controbilanciato dalla riflessione, dal tempo a propria disposizione e dalla parte di felicità che ciascuno deve a se stesso”. [p. 45]
Queto tema, la necessità di pensare un ordine internazionale, che sopravanzi l’interesse nazionale, ritorna più volte nella riflessione negli anni successivi. Per esempio nell’aprile 1947 su “Combat”, scrive:
“L’unica cosa da fare sarebbe … individuare tutti insieme quell’ordine internazionale senza il quale nessun problema interno sarà mai risolto in nessun paese. In altri termini, bisognerebbe dimenticare un po’ se stessi” [p. 694].
Inutile dire che allora non ce la fecero. Quel problema continua a riguardarci.
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