Storia
I diritti dei «senza voce» d’America. Ricordando Martin Luther King
Il cinquantesimo anniversario dell’assassinio di Martin Luther King (il prossimo 4 aprile) è una buona occasione per riflettere sulla condizione degli Stati Uniti oggi. Si potrebbe essere tentati di ripercorrere le strade del processo d’integrazione per vedere che cosa resta vivo di quell’impegno, la cui novità fu rappresentata, soprattutto, più che dai temi, dalle persone, ovvero dalla convergenza di molte Americhe fino a quel momento separate nell’idea di fare l’America. Un processo che ha alle spalle un lungo secolo di storia e che vede la sua formulazione nell’auspicio di John Dewey negli anni della Prima guerra mondiale di pensare l’America come quell’esperienza in cui si profila la possibilità di un patto di rigenerazione universale tra individui. Spazio inclusivo, in cui l’accoglienza è processo costante di allargamento della cittadinanza
E’ un tema legittimo, ma credo che ci farebbe smarrire un carattere di universalità in cui oggi si riconosce tutta l’America di oggi, perfino quella che si colloca all’opposto degli ideali per cui si batteva Martin Luther King.
C’è una sofferenza dell’America, in cui si segnalano le tappe fondamentali del processo sociale e politico negli Stati Uniti dal secondo dopoguerra in poi e che si avvia in forma compiuta con l’esperienza politica della lotta rappresentata da Martin Luther King. Condizione che segna alcune stagioni e che comunque si mantiene nel tempo lungo anche molto tempo dopo. Questa sofferenza si traduce ogni volta nei percorsi della politica come esperienza in cui i «senza voce» si presentano sulla scena della politica e non tanto per chiedere ascolto, quanto perché l’agenda politica si riorienti facendo compasso intorno alle loro domande. La richiesta non è solo il cambio della scala delle priorità, ma l’assunzione della propria persona come metro del malessere americano.
Il cambio di registro che esprime Martin Luther King non consiste in ciò che si chiede – la parità dei diritti – ma nel trasformare quella richiesta e presentarla con la rifondazione del patto americano. E’ questo è il profilo del discorso più noto di MLK, quello tenuto il 28 agosto 1963 davanti al Lincoln Memorial di Washington, al termine di una marcia di protesta per i diritti civili, nota come Marcia su Washington per il lavoro e la libertà. Un testo a cui manca il gesto del patto ma che di fatto è la scrittura del patto americano, a partire dalla propria parte.
Quella stessa condizione e quella richiesta di cittadinanza è tornata da allora molte altre volte sulla scena americana e molto spesso nei momenti più laceranti o drammatici della storia americana ed ha coinvolto tanto il capo democratico come quello repubblicano. E’ stato l’urlo dell’orgoglio americano dela presidenza Reagan e quello della rinascita promessa dalla generazione della nuova America rappresenta in forme complementari dal binomio Clinton/Al Gore, dal segno del riscatto dopo l’11 settembre e dalla voglia di riprendere a sognare dela presidenza Obama. Ma lo stesso urlo ha ripreso a percorrere le strade d’America nella corsa di Trump, spinto soprattutto da un’America che si sentiva dimenticata, che non riconosce se stessa nella politica e che ha riconosciuto nel candidato contro il suo stesso partito il portavoce della sua insoddisfazione e della sua rabbia come ha scritto Roberto Festa nel suo L’America del nostro scontento (Eleuthera). Un’America che nel novembre 2016 crede che sia giunta la sua ora dove finalmente siano riconosciute le proprie domande di giustizia, e di attenzione e che rivendica fortemente il suo diritto alla giustizia soprattutto come diritto delle proprie ragioni a non essere disattese e dimenticate dalla politica .
Quattordici mesi dopo, al netto di tutti gli scandali e dei sospetti, quella stessa America si trova scavalcata da un’ altra realtà di «senza voce» che chiedono il diritto di ascolto e che rivendicano che la necessità che l’America si occupi di loro.
E’ stato detto che i 6 minuti e 20 secondi di silenzio dell’intervento di Emma Gonzáles lo scorso 24 marzo a Washington durante la March for our lives sono stati il silenzio più fragoroso dela storia pubblica americana. La sfida quel giorno non stava nelle parole, stava nei numeri.
La sfida delle parole Emma Gonzáles, l’aveva già lanciata cinque settimane prima, sabato 17 febbraio, a tre giorni dalla strage a Parkland, in Florida. Allora in un’America ancora sotto shock e un presidente del tutto incapace di articolare parole, proprio perché i «senza voce» non erano i suoi, Emma Gonzáles, sopravvissuta alla sparatoria nella scuola superiore di Parkland il 14 febbraio in Florida in cui Nikolas Cruz ha ucciso 17 persone, ha preso la parola.
Per i partigiani di «America First» era il primo momento, dopo quattordici mesi, dove tacere era l’unica possibilità per tentare di rientrare in gioco, La parola era in mano ad altri che Trump non può annoverare tra i suoi. Dall’altra parte la sfida non era meno cruciale: Il problema era riprendersi in mano il futuro senza lasciarlo al caso di qualcuno armato di pistola. In quel giorno forse senza dirlo, abbiamo avuto precisa l’immagine di che cosa voglia dire presa di parola dei «senza voce»
In quel suo intervento di undici minuti, letto velocemente, fino a mangiarsi le parole, in ogni caso senza nessuna retorica oratoria e istrionica e costantemente interrotto dai singhiozzi, a un certo punto Emma Gonzales, va dritta al punto, senza mediazioni, come tutti coloro che sanno che è la loro unica occasione di parola e che il potere mediatico non ti concede una seconda chance o te la concede solo se hai vinto il primo. Con tutta la forza che aveva e senza interrompersi, ha detto tutto d’un fiato:
«Se il Presidente vuole venire qui da me per dirmi in faccia che è stata una tragedia terribile, che non sarebbe mai dovuta accadere, e continuare a ripeterci che nulla verrà fatto al riguardo, gli domanderò con immenso piacere quanti soldi ha ricevuto dalla National Rifle Association La volete sapere una cosa? Lo so già. Trenta milioni di dollari. Che divisi per il numero delle vittime da armi da fuoco negli Stati Uniti solo nel primo mese e mezzo del 2018, fanno 5.800 dollari ciascuna.»
E dopo di che, ha chiesto direttamente al Presidente del suo paese:
«È questo il valore che quelle persone hanno per te, Trump?».
Cinquant’anni dopo, dunque, l’America torna sulle strade perché stare a casa non è possibile. Perché, almeno questo è il suo principio, occorre che i «senza voce» parlino per tutta quell’America che non ha la forza di parlare.
La partita apparentemente risolta l’8 novembre 2016 si è riaperta, paradossalmente proprio laddove i trionfatori di quella giornata pensavano di aver messo fine a un tempo. Quel tempo forse, dal 17 febbraio, scorso ha ripreso a scandire un altro diritto violato e a dare una possibilità di perché altri «senza voce» rivendichino il dovere della politica a fornire risposte.
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