Storia
Dieci anni e sentirli. Vittorio Foa. (2008-2018)
In questi giorni ricorre il decennale della morte di Vittorio Foa (lunedì 22 si aprirà a Roma un convegno che spero consenta di riaprire il dossier di quel percorso inquieto rappresentato delle domande che a lungo hanno accompagnato la sua riflessione ma anche e soprattutto, la sua azione politica e civile).
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Per questo ho ripreso in mano un libro piccolo di Vittorio Foa che mi ha segnato molto e che mi ha suscitato molte domande. A differenza dei catechismi, che sono manuali che forniscono risposte prêt-à-porter, i libri sono questo : testi che producono e inducono domande.
Il titolo di quel libro piccolo è Un dialogo (Feltrinelli), pubblicato nel 2003, un testo che è il risultato di un confronto serrato, più che un botta-risposta, tra Vittorio Foa e Carlo Ginzburg. Un lavoro di scavo nella biografia di Foa, ma dove al centro e accanto sta anche quella segnata dalle inquietudini di Carlo Ginzburg e di almeno due generazioni di militanti inquieti a sinistra, dove non si fanno sconti. Un confronto che si muove sul filo della microstoria. Senza nessuno sconto per i «vuoti di memoria»
Un viaggio a ritroso negli anni della militanza politica e sindacale, gli amici perduti «di ieri», la doppiezza nascosta dietro a scelte non sempre condivise nel profondo. E dove dai silenzi degli anni Cinquanta alle parole ritrovate di oggi, Vittorio Foa si racconta senza scandali.
Un puntuale controcanto segnato da domande impertinenti ma mai morbose che scavano dentro una biografia.
Il meglio, si potrebbe dire, di ciò che ci dobbiamo aspettare da un libro piccolo. Un genere editoriale che non è solo un formato esterno, ma che corrisponde a un bisogno: la necessità di riparametrare il sapere, di fornire con uno strumento agile, un quadro del sapere di questo nostro tempo.
Un tipo di testo che non ha la pretesa di raccontare tutto, ma che ha la funzione di ridiscutere un luogo comune, o qualcosa che diamo per scontato. Un testo che talvolta ha la funzione di aprire un tema cui non abbiamo prestato attenzione, talvolta è un momento di bilancio, talvolta è uno strumento che guida alla lettura di altri testi.
Di Foa si possono ricordare oggi molte cose e molte suggestioni: la necessità di ritrovare nel momento della sconfitta le risorse in cui la politica non è solo pratica del governo degli altri, ma anche e soprattutto lento apprendimento di governarsi e di autogovernarsi; la suggestione a non accontentarsi del proprio palinsesto culturale, ma continuare a cercare perché il futuro non è l’effetto di una teoria che lo predefinisce e dunque la disponibilità costante a rimettersi in gioco, senza cautelarsi.
Ma ci sono almeno due elementi che mi sembrano essenziali proprio a partire dalla condizione culturale, politica – più genericamente lo «stato di salute» – di quella parte di mondo di cui Vittorio Foa può essere assunto come «proprio» che oggi propongono Vittorio Foa non come una figura del passato .
Il primo lo indico molto velocemente e rapidamente, riguarda come si analizzano le sconfitte storiche.
Nel 1980, quando raduna alcuni scritti sulla storia del movimento operaio (Per una storia del movimento operaio, Einaudi) nella premessa scrive:
“La storia istituzionale non fornisce alcuna spiegazione sul comportamento operaio nei grandi stati belligeranti nell’agosto del 1914. Per capire quello che è successo non basta più riferirsi alle posizioni esterne, alle dichiarazioni di volontà, o analizzare il grado di coerenza ideologica e dottrinale col passato delle varie organizzazioni. Bisogna andare a vedere cosa fece concretamente e cosa pensava la gente, al disotto della cultura specialistica portata dal missionarismo socialista, cercare di capire il rapporto con la tradizione della famiglia, con l’insegnamento della scuola e della chiesa (o delle chiese), la cultura dei giornali a basso prezzo, del cinematografo nascente, delle osterie , dei pub, dei bistrot, delle birrerie, del music hall: per capire Londra del primo anteguerra, non basta studiare Lenin e i materiali preparatori dell’Imperialismo, bisogna anche studiare Charlie Chaplin”.
«Studiare Charlie Chaplin» vuol dire analizzare la vita reale, ma anche come si forma l’immaginario di milioni di persone che sono vita reale. Riguarda la storia e le trasformazioni di qualsiasi soggetto culturale, sociale, politico e non solo il movimento operaio. E’ un tema che tornerà nelle sue conversazioni degli anni ’80 (poi radunate nel libro Scelte di vita, Einaudi) quando proporrà significativamente di leggere la sfida proposta dal nascente movimento dei verdi alle sinistre europee nei temi, ma anche nei profili umani delle figure pubbliche. Anche quella volta non sbaglierà indicando nel ricambio al ribasso dei gruppi dirigenti politici una delle cause, e forse la più rilevante di una sconfitta di lunga durata. Tra l’altro in quelle pagine è significativo, siamo nel 1984, che indichi in Alex Langer una figura capace di pensare futuro.
Su questo aspetto nelle pagine di Un dialogo Vittorio Foa non insiste molto, anche se quel tema sta nel sottofondo di tutta la sua scrittura dopo la militanza attiva da sindacalista, ovvero a partire dal 1970 , fino alla morte.
La seconda condizione, e questo tema invece è ventrale dentro le pagine di Un dialogo, riguarda il fatto che le azioni di ciascuno, le decisioni , in breve gli atti, non sono mai completamente liberi, ma sono il risultato di una palinsesto in cui si decide d giocare. Significa che la distanza del tempo può professore la coerenza, ma molto più proficuo, istruttivo, e propositivo misurarsi sempre con le proprie contraddizioni e dunque sottrarsi al fascino di costruire un monumento si sé in vita.
C’è un passaggio in cui il tema è la doppiezza, negli anni duri dello stalinismo, il fatto di non essersi sottratto a quella condizione su cui Ginzburg in quel colloquio lo sollecita e cui Vittorio Foa non si sottrae nelle risposte.
Dice dunque Foa: «Noi uscivamo dalla sconfitta del blocco popolare (socialisti più comunisti eccetera) nelle elezioni del 1948. C’era stato un tentativo socialista, che faceva capo soprattutto a Lombardi, Santi e altri, di creare una nuova linea che sganciasse il partito socialista dai comunisti senza andare verso i democristiani. In qualche modo, era un’idea di terza via. Io partecipai molto intensamente a questa esperienza che durò circa un anno. Conquistammo il partito, poi fummo sconfitti da Nenni e dai suoi compagni. Si creò una situazione di forte tensione interna, ma dato il meccanismo autoritario che dominava all’interno del partito nel 1950 non era più possibile manifestare posizioni diverse. Perché non era più possibile? Vorrei chiarire questo punto. Vi sono dei casi in cui tu senti di non essere creduto, senti l’inutilità di dire certe cose, non solo, senti che dicendo certe cose tu perdi una fiducia possibile nel futuro dei rapporti con gli amici e con i compagni. Io non voglio qui difendere l’opportunismo, voglio cercare di confessare in che cosa può consistere l’opportunismo, perché quello era certamente opportunismo. Però tu sentivi benissimo che se uscivi allo scoperto entravi in un altro mondo.»
E Ginzburg: «Quale altro mondo?». «Eri immediatamente protetto da qualcun altro che era la Cia» è la risposta di Foa.
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Vi è, dunque, soprattutto un ambito della sua esperienza di militante che Foa intende indagare. Con una duplice premessa: mantenere da un lato il confronto con la propria radicalità e, dall’altro, la diffidenza verso qualsiasi «vuoto di memoria». A Ginzburg che gli sottolinea come «ogni volta che m’imbatto in un tuo vuoto di memoria, penso sempre che ci sia qualcosa che stai rimuovendo. Non credo ai tuoi vuoti di memoria», Foa replica: «Una buona cosa non credere ai vuoti di memoria».
L’ambito, comunque, è definito dagli anni `50 e dalle incertezze che caratterizzeranno la riflessione storiografica e culturale di Foa anche a partire dalla fine degli anni `70 – dopo la stagione dei movimenti e dei 55 giorni di Moro. Dallo studio sul movimento operaio inglese di inizio Novecento (La Gerusalemme rimandata, Rosenberg & Sellier, 1985 e ora Einaudi), insomma, alle riflessioni sulla natura della propria esperienza politica ( Il cavallo e la torre, Einaudi 1991 e Lettere della giovinezza, Einaudi 1998).
Dunque: due uomini di due generazioni diverse, ciascuno con una propria personalità non riducibile a quella della propria generazione si parlano e si confrontano, provano a riflettere sul senso delle loro biografia e sulle domande che da lì nascono.
Si potrebbe dire in prima battuta che questo sia il senso autentico di Un dialogo. Foa racconta le proprie perplessità, cerca di rispondere indagando tra le pieghe della sua storia senza indulgere a ricostruzioni eroiche o monumentalistiche degli anni di militanza politica e sindacale: Giustizia e Libertà, il Partito d’Azione, quello socialista, il Psiup di Basso, Raniero Panzieri e i «Quaderni rossi», il Pdup e Democrazia proletaria. Per non parlare dell’esperienza nella Cgil, del suo essere riconosciuto come voce riflessiva e non «mosca cocchiera».
Ginzburg cerca di scavare in questa biografia estremamente inquieta – e sicuramente eccentrica e affascinante – per coglierne i momenti incerti. Momenti, inquietudini e dubbi che dicono moltissimo quando si voglia comprendere la storia di un’inquietudine non banale, di un rovello che ha prodotto costantemente riflessione critica e creativa.
Di questi momenti inquieti, Foa – nel dialogo – ne mette a nudo tanti: per esempio, il tema del silenzio sulla libertà di giudizio a sinistra e dentro la sinistra negli anni dello stalinismo. (E il tema della doppiezza – in questo caso – risuona ancora più forte perché «nominato» da un nome identitario della sinistra italiana e della sinistra nuova).
Un tema intorno al quale – pur avendo cominciato a riflettervi già a partire dalla seconda metà degli anni ’70 – Foa decide di parlare solo oggi. E di raccontare – vieppiù – quel silenzio imbarazzato degli anni `50, quella difficoltà a dichiarare il proprio pensiero per paura di non perdere gli amici, di sentirsi solo. E a proposito degli amici «di ieri» – Manlio Rossi-Doria, Franco Venturi, uomini del PdA che negli anni `50 non condivisero la sua scelta politica ma molte delle cui critiche trovava vere e corrette – Foa racconta come solo la lealtà che ancora lo legava a loro gli permise di sopportare drammatiche rotture.
Intorno a questi vuoti di memoria «ritrovati» – o almeno scavati e indagati – allora si accese una polemica in cui il pregiudizio, la fretta nonché un certo provincialismo scandalistico di maniera si sfogò, tornando a parlare di azionisti moralisti pronti a dichiarare la propria «immoralità» (secondo stilemi, modalità verbali, stereotipi che erano stati già rodati in occasione della pubblicazione de Il mite giacobino di Galante Garrone nei primi anni `90). Una macchina che indica una forma del pensare e che significativamente si è riaperta in Italia intorno alla discussione suscitata dalla questione del Me too.
Un dialogo è, dunque, una biografia, che si muove sul filo della microstoria secondo un percorso che non solo è congeniale a Carlo Ginzburg ma che è proprio anche del modello riflessivo e storico-sociale di Vittorio Foa. Già nella sua prima significativa raccolti di studi storici Foa, infatti, osservava: «La negazione di ogni visuale ideologica globalizzante, di un processo storico come finalizzazione rispetto a un disegno (o a un destino) precostituito, e quindi come Progresso, deve portare alla disaggregazione della ricerca e del racconto, alla rivalutazione del particolare, e questo non perché il `piccolo’ sia bello in sé ma perché attraverso di esso si arriva a cose più grandi e finora sconosciute o trascurate. Riaffondare le radici dell’intelligenza in tutta la complessità del reale, riscoprire l’individuo nella storia, è comunque un passaggio obbligato per arrivare a nuove sintesi, collegate col movimento anziché con l’ideologia.» (da Per una storia del movimento operaio, Einaudi).
Lo scavo biografico, dunque, non come scelta che riguarda tutta una generazione ma come processo relativo a un singolo individuo, al suo modo di riflettere, alle sue passioni e al loro groviglio. Al suo modo, insomma, di vivere il presente e di riflettere sui problemi del presente che sempre si generano allorché si riconsideri il proprio passato. Una vicenda specifica in cui si condensa certo il senso di una lunga durata ma che non per questo è assumibile come sintesi ultima di una intera generazione politica.
Un dialogo è un testo inconsueto nel panorama culturale italiano. E’ un libro di un laico e non di un pentito. Ovvero è un testo dove – con passione – si raccontano momenti di una riflessione che si propone come luogo civile.
E lungo questa strada si incontrano molte risposte: perché, per esempio, Vittorio Foa cercasse risposte alla crisi del movimento operaio e sindacale della fine degli anni `70 andando a interrogare gli inglesi di inizio Novecento; perché maturasse il pensiero di una «politica del tempo» da contrapporre a una politica quantitativa del prodotto; perché la sua indagine sul Novecento si interrogasse sul rapporto tra scelta politica e astensione dalla politica.
In questo libro, dunque, c’è l’insieme degli strati profondi di una biografia culturale che non vuole proporsi come un’icona.
Anche per questo , credo abbia un valore proprio come quei libri che ogni tanto riapri, così per trovare un senso al proprio percorso, alla propria ricerca, anche sulla sfondo di una citazione di Gianbattista Vico, che Foa ha ripreso significativamente in apertura della raccolta delle sue lettere del periodo carcerario (1935-1943), laddove scrive:
“Paiono traversie e sono opportunità”: questo pensiero di Vico ha accompagnato un lungo pezzo della mia giovinezza. L’ho in qualche modo adottato come senso della vicenda raccontata in queste lettere: il travaglio, le privazioni, la sofferenza del presente erano proiettati nel futuro, non erano un patimento da sopportare stoicamente o religiosamente, erano delle possibilità e quindi delle scelte.
Il passo di Vico, che Vittorio Foa citava a memoria, è tratto dalla dedica a papa Clemente XII premessa alla seconda Scienza Nuova, pubblicata a Napoli nel 1730: “per varie e diverse che sembravano traversie ed eran in fatti opportunità”. Significativamente è anche la frase che Claudio Pavone adotta, ricordando appunto Vittorio Foa, in apertura del suo Una guerra civile. Saggio sulla moralità della Resistenza (Bollati Boringhieri). Anche lì si trattava di aprire un campo di ricerca e allo stesso tempo assumere quel tema non più come celebrazione, ma come scavo nella propria storia, per rendere conto di ciò che si è fatto, o di ciò che si eredita, nelle sue inquietudini e anche nelle sue contraddizioni. Per provare a pensare oltre il proprio tempo e non per aderire a una religione del proprio tempo, andando in direzione ostinata e contraria.
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