Storia

Depredare le vittime, liberarsene e vivere felici. Scene dallo sterminio

7 Maggio 2016

All’inizio c’è una foto (è quella che apre questo testo) che si fa fatica a mettere a fuoco: un gruppo di contadini, uomini e donne, armati di pale con accanto dei militari si fa fotografare su un mucchio di terra. C’è il sole e tutti sono vestiti come d’estate.  Potrebbe essere la normale foto dopo la mietitura. Poi uno guarda con più attenzione e vede che ai piedi di quei contadini stanno teschi , tibie, in breve resti umani disseppelliti e allora quella “gaiezza” quel riposo meritato dopo il duro lavoro, acquista un altro sapore. Stiamo per entrare un una storia che è la storia di un raccolto, solo che quello di cui stiamo parlando non riguarda né grano, né pesche o ciliegie. Il raccolto è la caccia all’oro dei morti, spesso dei morti che sono stati uccisi da quegli stessi che ora stanno scavando.

 

Un raccolto d’oro, l’ultimo saggio storico di Jan Tomasz Gross, (autore di I carnefici della porta accanto) e di Irena Grudzińska Gross è un libro che si legge lentamente. E’ corto, ma in quelle 120 pagine si fa fatica a procedere. L’argomento  è molto spinoso e anche inquietante. Si potrebbe dire semplicemente: c’è un crimine e qualcuno che lo compie. Ma poi ci son tutti gli abitanti intorno, soprattutto se la scena si ripete nei piccoli villaggi, che “partecipano”, comunque che poi “coprono”. E’ una scena che persino dopo facciamo fatica a leggere e o che il cronista fa fatica a raccontare (in piccolo, non accade così anche per fatti di Caivano?)

Il crimine di cui sta parlando Un raccolto d’oro è l’uccisione in massa di ebrei durante la seconda guerra mondiale; per la precisione nell’area abitata da polacchi; per la precisione in gran parte dei villaggi; per la precisione uccisioni eseguite dagli inquilini della porta accanto. Una progressiva messa a fuoco che contemporaneamente è un viaggio nel “ventre profondo” dell’Europa.

Non si tratta più di una storia circoscritta, come nel caso di Jedwabne in Polonia una scena ricostruita nei dettagli in I carnefici della porta accanto ma di una storia seriale che percorre tutta la mappa dello sterminio: dall’area intorno Treblinka (quella del luogo in cui è stata scattata la foto che apre il libro),  fino a Varsavia, ma poi a Cracovia, a Bełżec.

Come tutte le storie seriali è la quantità dei fatti (si potrebbe dire la regolarità dei comportamenti che costituiscono i fatti) che fa la differenza perché nella ripetizione centinaia di volte della stessa scena alla fine il dato che ricaviamo è molto semplice: l’Europa allora non fu preda di alcuni dissennati fanatici, ma soffrì di un’euforia, profonda e , soprattutto, diffusa.

“Dei sei milioni di vittime complessive della shoah – si chiedono i Gross – quanti ebrei dell’Europa furono uccisi dalla gente del posto? A seconda del metodo di calcolo adottato, la stoma degli storici potrebbe andare da un milione a un milione e mezzo. Quanti ebrei furono assassinati dai loro concittadini sul territorio della Polonia prebellica? Probabilmente si tratterebbe di qualche centinaia di migliaia. E quanti ebrei furono uccisi dai loro vicini e connazionali nei territori etnicamente polacchi?

E così si rispondono:

“Le ricerche sull’argomento sono ancora in corso e solo in futuro potremo avere una valutazione più precisa, ma per ora possiamo stimare diverse decine di di migliaia [pp. 46-47].

 

Di queste diverse scene i Gross raccontano episodi diversi, in luoghi diversi, in cui dominano molte immagini. Tre sono indelebili al lettore:

La prima è quella che Gross riprende da Emanuel Ringelblum (1900-1944) il fondatore del progetto Oneg Shabbat la raccolta, già a partire dal 1941, dei documenti che poi sarebbero stati utili a ricostruire una storia spesso senza testimoni quale s’immaginava già allora sarebbe stata la scrittura storica dello sterminio ebraico. L’espressione è “defunti in licenza”, ovvero individui senza un domani nei confronti dei quali era lecito avere un atteggiamento non solo e non tanto indifferente, ma “interessato”: alle loro scarpe, ai loro vestiti, ovviamente al loro denaro, ai loro beni, indifferentemente dal valore. Tutto questo perché, appunto, i loro averi erano solo temporaneamente e dunque se ne poteva disporre con liberalità, anzi si pretendeva di averli praticamente senza contropartita.

La seconda è quella che fa sì che sia naturale il passaggio di quei beni dai loro legittimi proprietari ai nuovi proprietari. N. Nella sua semplicità, forse, non c’è frase più efficace di quella che Gross riprende da The Holocaust by Bullets l libro del sacerdote francese Patrick Desbois  quando ricorda che nel corso delle sue ricerche volte a individuare le fosse comuni in Ucraina, che Desbois ha sentito da uno degli abitanti del posto : “Un giorno nella nostra cittadina ci siamo svegliati e avevamo tutti addosso i vestiti degli ebrei”.

La terza, infine, è quella che è direttamente legata alla foto di partenza. Noi sappiamo oggi che una buona parte di quegli uomini e donne, e anche della cosiddetta polizia blu, ovvero la polizia polacca, ebbe un ruolo nello sterminio nella spoliazione e nelle violenze di allora.

Come è capitato molte altre volte, anche in anni più recenti e vicini a noi, per esempio a Srebrenica (ma anche in Rwanda), l’azzeramento della persona dei civili, il passo immediatamente precedente alla loro eliminazione fisica, mostra i civili intorno, il vasto mondo degli “spettatori” che entra in scena attivamentei ed entusiasticamente: si approfitta delle vittime, si porta a casa quanta più roba possibile e, in mancanza di cose da prendere, si prende i corpi delle vittime, li violenta, ricattandoli (è questo uno dei prezzi per garantire loro “salva la vita”) oppure semplicemente si diverte “a possederli”.

L’esposizione de teschi in quella foto non è l’indicazione della brutalità, bensì dell’indifferenza e spiegano i Gross “ha la sua radice nel mancato riconoscimento della morte di cui le ossa sono segno” ovvero nel non riconoscere dignità persone di quei resti è solo ciò che ci resta, alla fine di quella storia.

Quella foto, tuttavia, spiega, tragicamente, anche un’altra cosa: non è vero che tutti i polacchi fecero questo. Ce ne furono, e tanti, che salvarono, che non si approfittarono. Ma non era intelligente, né spendibile dirlo allora e neppure dopo di allora. Forse di tutti, il fatto che i “giusti” non mancarono, ma che i loro atti non furono e ancora spesso non sono accolti con riguardo dice molto del senso comune di allora e di ora. Perché come ha detto più volte lo storico Yehuda Bauer il problema morale della Shoah (ma si potrebbe dire per esteso quello di qualsiasi atto di sterminio di massa) non sta nel fatto che gli autori erano disumani, ma nel fatto che erano umani, come noi”.

Non solo.

Un’ultima domanda è bene porsi. E’ una scena lontana dai nostri giorni? Mi piacerebbe dire di sì, ma penso di no.

Al centro di tutte queste storie e anche nella foto che è all’origine del libro dei Gross, sta un’idea di indifferenza e di possesso del corpo degli altri. Ovvero il fatto che una volta che l’altro si trova “nelle nostre mani” si può fare del suo corpo molte cose andando oltre il consentito e senza per questo provare vergogna o imbarazzo. Per cui può capitare, anche molto tempo dopo, in atro luogo, in altra storia, di farsi fotografare con i corpi dei nemici ai propri piedi e a guardare diritti nell’obiettivo, con uno sguardo innocente dicendo in cuor proprio “Qui non succede niente”.  Abu Ghraib ci ricorda qualcosa? Che cosa la differenzia dalla foto su cui riflette e ci invitano  a  riflettere Jan Tomasz Gross e Irena Grudzińska Gross?

 

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