Storia
I fantasmi di Danzica e i massacri in Medio Oriente
Leggere a Danzica delle stragi in Israele/Palestina è doppiamente raccapricciante. Viene da pensare che gli esseri umani non imparino mai nulla dalla Storia, ma questo pensiero è di una tale banalità da suonare quasi ridicolo. E tuttavia questo ho sentito e pensato, una manciata di giorni fa, camminando lungo la Ulica Długa, una delle arterie della metropoli sul Baltico, una via elegante e piena di vita.
Come Gerusalemme o la Valle del Giordano, anche Danzica, nella sua millenaria storia, è stata furiosamente contesa, e nel ‘900 ha affrontato un’ordalia che pochi luoghi in Polonia (e quindi in Europa) hanno conosciuto. Per Danzica sono morti in tanti, tantissimi. Aveva torto Marcel Déat, che nel 1939 scriveva un articolo dal titolo celeberrimo: Mourir pour Dantzig ? Déat, per inciso, sarebbe diventato collaborazionista di successo nella Francia di Vichy, per poi morire in Italia, poco più che sessantenne, piuttosto solo e dimenticato.
Danzica è, indubitabilmente, una metropoli europea. Sia chiaro: non è troppo popolosa, mezzo milione di abitanti, come Genova più o meno. E in Polonia ci sono città più influenti: oltre a Varsavia l’ex capitale Cracovia, la vivacissima Łódź, la dinamica Wrocław, per non parlare di Poznań. Ma io uso il termine metropoli nella sua accezione originaria, città-madre da cui poi ci si stacca. Corinto e Siracusa, Sparta e Taranto, Atene e Thurii. Per secoli marinai e mercanti di Danzica hanno solcato i mari d’Europa e del mondo a caccia di ricchezze, opportunità o anche solo pane e companatico. Del resto il destino di una madre è questo: lasciare andare i suoi figli, sperando che prima o poi la vadano a trovare, si prendano cura di lei, facciano ritorno nella casa natia per allargarla e abbellirla. Le case un tempo erano costruite dai padri, però ad abitarle erano soprattutto le madri, le nonne, i fantasmi di famiglia (e le madri e le nonne erano spesso le custodi ed evocatrici di questi fantasmi; i maschi di casa erano “razionali” e non credevano alle “sciocchezze da donnicciole”).
Danzica è prima di tutto il suo porto, il secondo del Baltico dopo quello russo di Ust-Luga, nell’oblast di Leningrado. E al pari di numerose città mediterranee, sa accogliere il visitatore, specie quello che, come il sottoscritto, pronuncia la formula magica: Jestem Włochem, sono italiano. I polacchi amano l’Italia, specie il nostro calcio (se sono uomini) e le nostre città d’arte (specie se sono donne). Ciò è particolarmente vero a Danzica, dove mi è stato insegnato che nel Napoli giocano due polacchi e altrettanti nella Juventus, che lì pronunciano Giuventus.
Si dice che il Baltico sia il Mediterraneo dell’Europa settentrionale, è quasi un luogo comune, e in effetti Danzica ha un che di mediterraneo. Una volta, a Genova, confessai a un edicolante che non ritornavo in città da molti anni, e lui mi sorrise radioso e fece: «Allora bentornato». A Livorno, altra città mediterranea, di recente mio padre ha avuto un serio problema di salute e i livornesi (non solo i medici e gli infermieri, ma anche i passanti, i taxisti, il personale di hotel e ristorante) si sono presi cura di lui (e di me, arrivato in fretta e furia per assisterlo) con generosa umanità. Mi sono bastati pochi giorni a Danzica per sentirmi a casa, ed essere trattato con grande familiarità dai gedanesi del quartiere.
Danzica sembra amare appassionatamente la vita. Di giorno le strade sono affollate di turisti, studenti, manifestanti che protestano (contro il regime bielorusso, contro Israele); di sera nei ristoranti gremiti ardono stufe e bracieri, e la gente ride, scherza, amoreggia, si infila nei bar e nei mini-market aperti sino alle ventitré. Eppure Danzica è una metropoli piena di fantasmi. Camminando per Główne Miasto, il cuore urbano ricostruito dopo le immani distruzioni della Seconda Guerra Mondiale, posando l’occhio sulle belle residenze patrizie, dalle strette facciate che sembrano merletti, e sui solenni edifici in mattoni rossi, si ha la sensazione di trovarsi nella Germania baltica. La sera che sono arrivato a Danzica, scintillante sotto la pioggia, la metropoli mi è sembrata un sogno di Miyazaki dopo un viaggio in Mitteleuropa. Ma dove sono finiti i tedeschi? E perché non sembrano esserci ebrei, in quello che un tempo fu uno degli epicentri dell’ebraismo riformato?
«Israele si sta macchiando di crimini atroci contro la popolazione civile palestinese» mi dice in inglese una manifestante gedanese. «Bisogna creare subito uno Stato palestinese» mi spiega il suo ragazzo, o forse è soltanto un suo amico. «Ma secondo voi gli israeliani accetteranno mai una soluzione del genere?» chiedo. «Esiste il popolo palestinese, e ogni popolo ha diritto a un suo Stato. Israele se ne deve fare una ragione» mi si risponde.
Ciò che noi italiani chiamiamo Danzica, e i tedeschi Danzig, è Gdańsk in polacco. Al Museo storico cittadino, in una pausa tra un lungo meeting e l’altro, vedo un manifesto del secondo dopoguerra molto eloquente: sopra la parola Danzig (in caratteri gotici) sbarrata in nero, sotto la parola Gdańsk in un baldanzoso maiuscolo rosso socialista, in mezzo i tesori architettonici e i simboli locali.
Nella metropoli si vedono sventolare parecchie bandiere bianco-rosse. Bandiere polacche, bandiere di un popolo orgoglioso di sé. Personalmente ammiro i polacchi. Grazie allo studio delle opere di un maestro della storiografia europea come Norman Davies, ad alcuni incontri del passato, e al ricordo dei piloti polacchi che nel 1940 si batterono nei cieli d’Inghilterra contro la Luftwaffe, ho imparato che un popolo può resistere anche alle sfide più tremende. Certo, nelle strade di Danzica non mancano i gonfaloni comunali, con la corona e le due croci quadrate; sono rossi, il colore della Lega Anseatica, colore che si ritrova pure nei vessilli di Amburgo, Lubecca, Brema, Stralsunda, Elbląg e persino Bergen, nella lontana Norvegia: traccia fenotipica, per così dire, di un’ormai defunta sorellanza baltica che aveva nella pervasività dell’elemento acquatico il suo genoma, e nei commerci via mare la sua prassi.
L’acqua è ovunque, a Danzica. La si respira nella pioggia sottile e nel vento baldanzoso che soffia dal Baltico. Luccica nei canali, come in una sorta di Venezia boreale. Nei secoli la metropoli ha imparato, più o meno, a vivere in simbiosi con l’acqua. Il suo destino (e quello del suo contado) è stato segnato, oltre che dal Baltico, da fiumi grandi e piccoli: la Motława; la Vistola, che sfocia placida nella Baia di Danzica (Zatoka Gdańska) ramificandosi in Śmiała Wisła, Martwa Wisła e così via; la Radunia; il Potok Siedlecki, che è soltanto un ruscelletto, però attenzione, le apparenze ingannano, secondo alcuni proprio da esso scaturì il nome della metropoli…
La parola Gyddanycz compare per la prima volta nel Vita prior, intorno all’anno Mille. Se ho ben capito potrebbe (il condizionale è d’obbligo) derivare dal toponimo slavo (lechitico, per la precisione) *gъd-an-ьskъ, con un riferimento alle paludi della zona. I tedeschi avrebbero poi germanizzato il nome. In ogni caso non si hanno certezze sull’etimologia di Gyddanycz, che è avvolta dalle brume altomedievali. Si sa però come le cancellerie e i colti chiamavano Danzica in latino: Gedanium o Dantiscum.
Esiste anche la versione casciuba di Danzica: Gduńsk. In Italia pochissimi sanno che esiste il casciubo, lingua lechitica al pari del polacco, ma all’Università di Danzica lo studiano, per fortuna, e c’è ancora chi lo parla. Mi è stato riferito (da polonofoni) che è lingua suggestiva ma un po’ arcaica: per esempio in polacco si parla di miasto, città, mentre in casciubo di gard, termine che rimanda al gord, l’insediamento fortificato dei protoslavi, con scopi chiaramente difensivi; non a caso esiste il Pražský hrad (il Castello di Praga, familiare ai turisti quanto Staré Město), il Ljubljanski grad (il Castello di Lubiana) e город, che in russo significa città (in ucraino, se ben ricordo, città si dice invece місто). I casciubi non hanno avuto vita facile nella Polonia comunista, le loro specificità culturali e linguistiche erano tenute in scarsa considerazione da un regime incline all’omologazione e al nazionalismo di facciata. Oggi il casciubo è riconosciuta da Varsavia come lingua regionale, e per tale motivo gode di alcune forme di tutela e sostegno.
I casciubi del passato erano un popolo anfibio; il loro nome deriverebbe, forse, da un termine paleoslavo per indicare l’acqua poco profonda o aree prossime a laghi o mari. Prima della conversione al cristianesimo i casciubi si beavano di un ricco pantheon di divinità e demoni collegate alla natura come Gósk, il potentissimo dio del mare, e Bòrówc, spirito delle foreste e nemico implacabile dei cacciatori. Molti intellettuali gedaniani sono rimasti affascinati dai casciubi, dal loro folklore e dalla loro resilienza (lo so, è una parola inflazionata). È il caso del polacco Paweł Huelle o del tedesco Günter Grass, che in Sbucciando la cipolla ricorda che i casciubi erano trattati dagli altri gruppi etnici come “nie polnisch, nie deutsch genung”. È questo il destino dei piccoli popoli che non sono né carne né pesce, né abbastanza polacchi né abbastanza tedeschi: stare in campana, tenere un basso profilo e sperare per il meglio. Come quel parente di Grass di origini casciube che aveva sia una bandiera polacca sia un vessillo con la svastica, e tirava fuori l’una o l’altra a seconda della situazione (ma attenzione, un altro casciubo della vasta famiglia di Grass si battè eroicamente contro gli invasori tedeschi, partecipando alla difesa dell’Ufficio postale polacco di Danzica).
E a proposito di Grass. A Danzica sono nati, nei secoli, grandi astri della cultura germanofona: lui, Nobel per la letteratura nel 1999, ma prima ancora Johannes Hevelius, Gabriel Fahrenheit, Luise Gottsched, Arthur Schopenhauer, Hugo Münsterberg ecc. La lista dei borgomastri di Danzica trabocca di patrizi con nomi come Henrich, Johann, Georg. Nel Muzeum Narodowe w Gdańsku è custodito uno dei capolavori dell’arte germanica, il noto Giudizio universale di Hans Memling (grazie a un corsaro gedanese, Paul Beneke, che se ne impadronì durante la cattura della galea San Matteo; i pii notabili gedanesi non restituirono mai il trittico ai legittimi proprietari toscani). Tutto questo per dire che, prima del 1945, Danzica era innanzitutto una metropoli tedesca.
Ma i polacchi hanno i loro argomenti. Il rzeź Gdańska, per esempio. Non lontano dal mio hotel mi sono imbattuto un paio di volte nel monumento ai caduti per la polonità di Gdańsk. Che commemora anche il massacro della locale popolazione slava per mano dei Cavalieri teutonici, nel 1308. La vicenda fu usata dalle autorità comuniste polacche per tracciare parallelismi assai dubbi tra Ordo Teutonicus e nazisti, e sottolineare le inclinazioni genocidarie dei tedeschi (ironia della sorte, la Polonia di allora confinava con la DDR, ma i rapporti tra i due Stati non erano idilliaci, e la celebrata Frontiera della pace Oder-Neisse era attraversata dalle tensioni); propaganda comunista a parte, sembra che il massacro contribuì in modo decisivo alla germanizzazione dell’area. E i polacchi ricordano perfettamente che l’aggressione tedesca alla Polonia nel 1939 aveva come primo obiettivo la “liberazione” della Città Libera di Danzica e la fine del famoso Corridoio. A proposito: il 17% di tutti i polacchi perì nel corso del conflitto, un dato che fa gelare il sangue nelle vene, ma che comunque non può far immaginare le immani sofferenze della Polonia tra il 1939 e il 1945 (e anche dopo non fu certo uno spasso).
A pochi metri dal Museo della Seconda Guerra Mondiale (Muzeum II Wojny Światowej) un signore di mezza età prende il sole su una panchina. Gli chiedo un’informazione, lui risponde in un buon inglese (ha lavorato nel Regno Unito), e alla fine ci mettiamo a parlare della guerra. A un certo punto mi dice: «La Polonia fu distrutta dai tedeschi. È stato giusto che la Germania restituisse Danzica alla Polonia, dopo tanti secoli. È stato un risarcimento». Chiedo al signore che cosa pensa del conflitto israelo-palestinese, lui mi guarda e risponde: «O gli israeliani o i palestinesi se ne devono andare via da lì. Non so dove, in Germania forse».
A Danzica (in yiddish: דאנציג), prima del 1939, esisteva una vivace comunità ebraica. Ne ha scritto un po’ di anni fa lo scultore Frank Meisler nel memoir On the Vistula facing east: il nonno Franz Boss, speculatore di successo, con proprietà anche in Germania e alle Canarie; il bisnonno Louis, coriaceo commerciante di cavalli che rispondeva “Der Alter ist ja auch ‘ne Krankheit” (la vecchiaia è essa stessa malattia) quando il bisnipotino gli chiedeva come stesse, e che morì pochi giorni prima di essere deportato dai tedeschi; il procugino Erich Ruchkewitz, assassinato in un campo di sterminio con la sin troppo amata madre, senza che il fratello Kurt (riparato nella Spagna franchista) volesse salvarlo; Arthur Levandovsky, inguaribile canaglia, ex ussaro della morte che da ubriaco pisciò nella Fontana del Nettuno (un simbolo di Danzica) ma che riuscì a scampare all’Olocausto e finì a fare il macellaio in Israele. E proprio in Eretz Yisrael si trasferirono molti ebrei gedanesi sopravvissuti, come lo stesso Meisler (che lasciò Danzica sull’ultimo Kindertransport) o Shoshana Shenberg: nata nel 1923, ancora in fasce fu portata dalla famiglia nell’allora mandato britannico della Palestina, dove si laureò in diritto, sposò Elisha Netanyahu (zio dell’attuale primo ministro) e divenne una stimata giudice.
Negli anni prima della guerra, quando era una Città Libera sotto l’egida della Società delle Nazioni, Danzica però era ormai l’ombra di se stessa. La sua prosperità era sempre stata legata al commercio dei prodotti polacchi, ma Varsavia puntava su un nuovo porto, in territorio polacco, Gnydia. Il momento di massimo fulgore di Danzica, del resto, fu a cavallo tra il XVI e il XVII secolo, prima del potop szwedzki, il diluvio svedese che devastò la Polonia-Lituania. Allora era un affollatissimo porto, crocevia di popoli, credenze e lingue, perno del traffico dei cereali provenienti dal vastissimo hinterland. Come in altri luoghi d’Europa, i gedanesi spesso conducevano esistenze plurilinguistiche e/o mistilinguistiche. Mercanti e architetti dai Paesi Bassi, banchieri italiani, marinai nordici, eruditi austriaci, artigiani francesi e funzionari dalla lontana capitale convivevano con borghesi tedeschi e lavoratori casciubi e polacchi. Era invero una metropoli superba, pronta a sfidare il re di Polonia e le talassocrazie straniere all’occorrenza. Nec temere nec timide, era il suo motto.
Tutto questo a Danzica non c’è più. Il passato continua a sprigionare la sua luce ammaliante, ma è morto come una libellula nell’ambra. L’ultima occasione della metropoli di precorrere i tempi, e di anticipare l’Europa migliore (quella che oggi troviamo in Alto Adige-Südtirol e in Alsazia, nello Schleswig-Holstein e in Val d’Aosta) fu quando i socialdemocratici della Città Libera contrapposero al concetto di sovranità tanto caro all’ottusa destra gedanese quello di Verständigungspolitik, politica dell’intesa, ovviamente con i polacchi. Sappiamo alla fine quale linea prevalse… E anche se da anni ritengo che la parola “spreco” sia la più calzante per descrivere la condizione umana sulla Terra, quando penso alla Danzica degli anni Trenta mi scappa sempre un sospiro. Sospiro che, ovviamente, ha meno peso di una foglia secca che cade.
Dopo il 1945 i tedeschi furono espulsi dalla metropoli devastata, che passò con le sue macerie alla Polonia comunista. Profughi fuggivano, profughi arrivavano. Ed erano morti quasi tutti gli ebrei gedanesi che non erano fuggiti in tempo (spesso prendendo la via del mare: navigare necesse est, vivere non necesse, si doleva dire a Danzica, ma a volte le due cose coincidono). Danzig raus, dzień dobry Gdańsk! Restavano, restano i fantasmi, che peraltro sono qualcosa anch’essi. E le memorie del passato glorioso, di Danzica indomita regina del Mar Baltico. Negli anni ’80 peraltro, grazie ai coraggiosi operai dei Cantieri navali Lenin, la metropoli fece di nuovo trattenere il fiato al mondo (ancora oggi Solidarność ha il suo quartier generale nella metropoli).
Ecco perché leggere a Danzica delle stragi in Israele/Palestina, è doppiamente raccapricciante. Tuttavia, per uno strano paradosso, libera anche la fantasia. Cosa succederebbe se i due popoli imparassero a convivere? Se ci fosse un governo israeliano diverso, se i tagliagole di Hamas non ricevessero più soldi, armi e appoggi dai potentati del Golfo, dall’Iran e dalla Russia? Se i leader occidentali avessero il coraggio di parlare chiaro ai leader israeliani come ha fatto di recente il socialista spagnolo Pedro Sánchez? Bombardare un ospedale pieno di innocenti è davvero giustificabile? Quei quasi due milioni di sfollati palestinesi che fine faranno? Un giorno potrà mai esistere una Verständigungspolitik tra israeliani e palestinesi?
Oggi il commercio tra Polonia e Germania fiorisce. La prosperità polacca degli ultimi anni è frutto anche dei cospicui investimenti tedeschi nel paese. A Francoforte sull’Oder la città vive anche grazie agli studenti polacchi iscritti alla locale Università Viadrina. A Berlino molti chef, informatici e infermieri sono giovani polacchi poliglotti. Le vie di Danzica sono piene di turisti tedeschi che scattano foto con gli smartphone e mangiano pierogi fumanti nei locali. La metropoli, uno dei bastioni della Polonia liberale, riscopre il suo passato germanico, e la sua profonda vocazione europeista. Non è un facile, ma senza dubbio vale la pena tentare. Guarda caso, uno dei pochissimi eroi che la politica europea del XXI secolo ha avuto è stato un gedanese, il sindaco Paweł Adamowicz, avvocato e negli anni ’80 dissidente anti-comunista, durissimo critico del PiS, paladino dei diritti umani; fu ucciso nel 2019 da un pregiudicato con gravi problemi psichici.
Il passato è passato. I morti sono morti. Moltissimo è andato perso per sempre. E i fantasmi rimarranno fantasmi: chissà se vorremo almeno imparare dai loro errori.
Tutte le foto sono stata scattate da Gabriele Catania.
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