Storia
Cronaca della Liberazione: un ragazzino e una lapide
All’altezza del numero 29 di corso Ventidue Marzo a Milano, c’è una lapide con la foto di un ragazzino di 11 anni.Gianluigi Arioli.
Quel ragazzino fu ucciso da un cecchino fascista che il 26 Aprile 1945 si era messo a sparare dai tetti sulla gente e sui partigiani che affollavano la via.
Io avevo allora otto anni e mi trovavo con mia madre a poche centinaia di metri di distanza.
Ho il ricordo delle detonazioni della sparatoria e della fuga che io e mia madre abbiamo fatto in una via laterale.
Non è stato il mio battesimo del fuoco.Questo era già avvenuto il 24 ottobre 1942, quando,con mia madre angosciata tornavamo a casa, tra quegli edifici in fiamme per il primo terribile bombardamento di Milano.
In seguito sono passato spesso davanti a quella lapide (ho abitato sempre in quella zona), guardando di sfuggita quel viso e quelle parole incise.
Ma solo recentemente mi sono messo a pensare e a confrontarmi con lui.
Io avrei potuto essere ,come tanti altri, al suo posto.
La casualità mi ha invece permesso di vivere mentre lui è rimasto per sempre immobile in quella foto.
Noi abitavamo nella zona, a poca distanza.
Eravamo andati verso Piazza Cinque Giornate perché si era sparsa la voce che stavano arrivando gli Alleati. Ricordo che la piazza era piena di gente e c’era una donna che sventolava una grande bandiera inglese.
Io conoscevo già tutte le bandiere alle quali ero molto interessato ma era la prima volta che vedevo una bandiera inglese vera, una grande bandiera.
Ma poi gli Alleati non arrivarono (li ho visti vari giorni dopo) e si sentirono solo i colpi della sparatoria e quindi la nostra fuga per una via laterale.
Mentre scappavo, attaccato alla mano di mia madre, mi ero voltato indietro e avevo visto sul corso avanzare un veicolo che la mia fantasia trasformò in un carro armato o qualcosa di simile.
Ma ciò che allora avevo vissuto come normale e cioè andare il giorno dopo l’insurrezione, quando la città era ancora piena di combattenti, insieme con mia madre , oggi mi sembra paradossale.
Mia madre, come mio padre, si allarmavano se i propri figli avessero il raffreddore o la febbre, eppure sono stato il suo compagno tante volte, negli anni precedenti, in questi nostri giri per la città in guerra.
C’era una certa incoscienza in tutto questo, ma questa incoscienza aiutava a vivere.
Una donna con un bambino per mano che gira per le vie di una Milano con le case sventrate; che va in centro a guardare quello che restava nei pochi negozi sopravvissuti, a mangiare dei dolci incredibili nelle pasticcerie ancora aperte.
Con il ricordo di uniformi grigie (i tedeschi) o nere (i fascisti), con il pericolo degli allarmi aerei.E poi,finalmente,il 25 quando le strade si riempiono di una strana moltitudine di persone, con abiti civili e militari ma soprattutto con armi di qualsiasi tipo, che andavano di qua e di là. E poi,qualche giorno dopo il colore marrone degli Sherman alleati che rombano per viale Campania. Era iniziata la nuova vita ma per quel ragazzino,si era fermata,lassù nella lapide.
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