Geopolitica
Cosa vuole Israele?
È difficile prevedere i prossimi sviluppi del conflitto nella Striscia di Gaza. Il 7 aprile, dopo che il 25 marzo il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha finalmente approvato una risoluzione per il cessate il fuoco (unica astenuta: Washington), il governo israeliano ha comunicato il ritiro delle truppe di terra dal sud del territorio palestinese, inclusa Khan Yunis. Intanto, è cresciuta ulteriormente la tensione regionale tra Israele, Hezbollah e Iran, suscitando preoccupazioni per l’andamento dei negoziati in corso al Cairo con la mediazione di Qatar, Egitto e Stati Uniti. Nella notte, Teheran ha lanciato su Israele centinaia di droni e missili balistici (tutti intercettati) come ritorsione per il raid contro il consolato iraniano a Damasco del 1° aprile. Nonostante le attuali 33.634 vittime dell’offensiva israeliana su Gaza, la tregua sembra ancora lontana.
Se in un contesto geopolitico tanto fluido ogni ipotesi sul futuro è in parte arbitraria, è invece utile guardare al passato per interrogarsi su cosa già adesso possiamo imparare da questa carneficina, sine ira et studio (o quasi). Sì, perché gli eventi spettacolari e terribili che si sono susseguiti dal tragico 7 ottobre 2023 non si possono spiegare solo con le manovre isolate e velleitarie delle élites al potere a Tel Aviv, come molti vorrebbero fare credere per attenuare le responsabilità morali di Israele. Semmai, la campagna dell’IDF nella Striscia è indicativa di una deriva cultuale e politica più profonda e più ampia che si è progressivamente aggravata a partire dagli anni ’90. Chi volesse capire cosa vogliono davvero i vertici dello Stato israeliano e – non dimentichiamolo – una componente non trascurabile del loro elettorato dovrebbe mettere in fila le tappe di un’involuzione che specularmente riflette quella di Hamas, intollerante regime autoritario di matrice islamica.
Tutto è cominciato con uno sparo, quello che il 4 novembre 1995 colpì fatalmente l’allora Primo Ministro israeliano e Presidente del Partito Laburista Yitzhak Rabin. Con Yasser Arafat, alla testa dell’OLP, Rabin aveva da poco siglato gli Accordi di Oslo (13 settembre 1993), che, malgrado le criticità e i nodi irrisolti, potevano somigliare ad un primo, timido passo verso la soluzione dei due Stati, la coesistenza pacifica. A freddare il leader israeliano era stato un giovane sionista intransigente, Yigal Amir, condannato all’ergastolo e tuttavia mai pentitosi dell’accaduto. L’estremo gesto di Amir non concretizzò soltanto le aspirazioni di qualche sparuta avanguardia, ma esternò con fanatico furore l’incipiente ondata teocratica, etnonazionalistica e suprematista che avrebbe caratterizzato il discorso pubblico e la prassi politica israeliani fino ai nostri giorni. Una spirale sionista seguì infatti l’assassinio di Rabin come una valanga, di cui le prime avvisaglie furono il successo di Benjamin Netanyahu alle elezioni del 29 maggio 1996 e il corrispondente inizio del naufragio dei laburisti, storicamente sostenitori del riconoscimento reciproco e dell’autodeterminazione. Basti ricordare la Seconda e la Terza Intifada, l’illegale colonizzazione cisgiordana, la ghettizzazione della Striscia dopo il disimpegno unilaterale israeliano nel 2005, l’approvazione, da parte della Knesset, della legge su Israele Stato-nazione degli ebrei (18 luglio 2018). Significativamente, alle ultime votazioni, il Likud di Netanyahu ha ottenuto il 23,41% delle preferenze; il Partito Sionista Religioso di Bezalel Smotrich il 10,84%.
Ben lungi dal costituire una parentesi passeggera o l’esito di un’estemporanea “invasione degli Hyksos”, la condotta di Tel Aviv a Gaza rispecchia quindi un pluridecennale processo sociale e politico di patologica radicalizzazione identitaria. Assistiamo al trionfo di quella che lo storico Benny Morris ha definito l’anima nera del sionismo, “distruttiva, egoista, militante, sciovinista-razzista” e, soprattutto, favorevole al “trasferimento” forzato della popolazione palestinese al di là del perimetro immaginario della Grande Israele. A prescindere da come andranno le trattative, è questo il progetto all’origine della pulizia etnica in atto, altrimenti pressoché incomprensibile. Vladimir Jabotinsky, padre spirituale della destra sionista, lo aveva già candidamente ammesso un secolo fa: “Andiamo in Palestina innanzitutto per il nostro benessere nazionale, poi per espungervi sistematicamente ogni traccia dell’anima orientale”.
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