Storia
Cosa sarebbe successo se la Fiat non avesse boicottato le auto elettriche?
Dicono che la storia non si faccia con i se, ma proviamo a fare un’ipotesi: cosa sarebbe successo se la Fiat non avesse boicottato e osteggiato le auto elettriche che tra la seconda metà degli anni Settanta e gli anni Ottanta si costruivano nella scuderia di una villa veneta a Stra, sulla Riviera del Brenta? Cosa sarebbe successo se quelle auto fossero state usate, com’era previsto, per tenere i veicoli con motore a scoppio fuori dalle mura spagnole di Milano, in modo da far circolare in centro solo vetturette elettriche?
Chissà, forse la storia dell’automobile, dell’industria italiana, e della salute degli italiani sarebbe stata diversa. Ma è andata così e non sapremo mai cosa sarebbe successo se. I pazzeschi livelli di polveri sottili raggiunti nella Pianura padana ci fanno rimpiangere quell’altrettanto pazzesco, e visionario, progetto di car sharing prima che la parola car sharing fosse inventata.
Chi aveva le visioni era un originalissimo (e ricchissimo) industriale del Nordest: Angelo Dalle Molle, nato nel 1908 a Mestre, un «campagnolo» secondo i veneziani d’acqua. Avercene di imprenditori come lui. Ha cominciato inventando il Cynar. Sì, sì: proprio l’aperitivo a base di carciofo, nato pure quello a Mestre, nel 1952, e diventato grande grazie al celeberrimo carosello con Ernesto Calindri contro il logorio della vita moderna. A Dalle Molle però non bastava aver messo a punto uno degli ingredienti al tempo usati per fare lo spritz (non di solo Aperol vive l’aperitivo). Voleva un mondo migliore, più pulito, dove si vivesse meglio e per ottenerlo, pensava lui, bisognava eliminare i motori a scoppio dai centri cittadini. Venduto il Cynar (oggi è un marchio della Campari), comprata nel 1967 la splendida settecentesca villa Pisani detta «La Barbariga», mette in piedi il Centro studi Barbariga. L’idea era organizzare un servizio di noleggio di vetture elettriche con parcheggi scambiatori dove lasciare la propria auto, prenderne una elettrica e quindi riconsegnarla, il progetto, oltre a Milano, coinvolgeva anche Padova, Firenze e Palermo. Problema: non c’erano le auto elettriche, quindi Dalle Molle ha deciso di farsele. La scuderia della villa è stata trasformata in capannone e vi è stata allestita una catena di montaggio per le vetture elettriche, marchiate Pge (Progetto gestione ecologiche). La prima auto viene costruita nel 1974, la prima omologa è del 1976, l’ultima è del 2003, ma già dagli anni Novanta il progetto era di fatto stato abbandonato. Ne sono state prodotte circa duecento, omologate come taxi, taxi merci, van, ambulanza. Siccome non erano destinate alla vendita ai privati non si è pensato all’estetica ed erano decisamente brutte. Una cinquantina di auto erano state costruite in collaborazione con l’Enel ed erano state distribuite in tutte le sedi regionali, una ventina erano finite a Bruxelles per garantire i collegamenti interni nell’università della capitale belga. L’Enel le ha utilizzate nelle aree delle centrali elettriche, ma non risulta che se ne siano ancora in circolazione.
Quando la Fondazione Dalle Molle ha venduto villa Barbariga, nel 2010, c’erano ancora una quindicina di auto nella scuderia/capannone: sono state donate al Museo Bonfanti-Vimar, di Romano d’Ezzelino (Vi), dov’è esposto un esemplare.
La costruzione di queste vetture si avvaleva di finanziamenti erogati al progetto pilota che aveva come capofila la Fiat e al quale partecipavano pure Magneti Marelli e Fiamm, oltre al Centro studi Barbariga. «La Fiat ci comprava le auto e dopo due anni le buttava via, perché non voleva che si costruissero» ricorda Enzo Di Bernardo, già collaboratore di Dalle Molle, che oggi a Noventa Padovana ne mantiene viva la memoria. Le vetture Pge arrivavano a Torino, restavano in magazzino e tornavano a Stra, ufficialmente perché nessuno le aveva comprate. La Fiat aveva in casa le auto elettriche e di fatto le boicottava rinunciando a produrle: scelta lungimirante, non c’è che dire. Certo, si sarebbe dovuto migliorarle: andavano al massimo a 50 chilometri all’ora, avevano scarsa autonomia e il telaio era troppo rigido rispetto alle nuove regole di sicurezza introdotte negli anni Novanta. Ma è sorprendente quanto fossero moderne nella concezione: si caricavano mediante una colonnina e dovevano servire, come detto, per il car sharing.
Angelo Dalle Molle non si è limitato a concepire il car sharing, ma ha pure anticipato google translator. «Era convinto che per liberare la popolazione dal bisogno bisogna aumentare la conoscenza», osserva De Bernardo e quindi aveva messo in piedi in Svizzera l’Isco (Istituto semantico cognitivo) che si proponeva di utilizzare i computer per tradurre da una lingua all’altra, mediante la voce artificiale. Le difficoltà erano enormi, i computer di allora erano all’età della pietra rispetto a quelli che abbiamo ora, ma l’idea di google translator c’era tutta. Dalle Molle, era il 1970, coinvolse alcuni docenti dell’università di Padova, tra i quali Alberto Mioni, ordinario di glottologia e linguistica, esperto di fonetica e di lingue africane. Comunque oggi, in Svizzera, ci sono quattro istituti di ricerca partecipati dalla Fondazione Dalle Molle, assorbiti dalle università elvetiche.
Un uomo tanto vulcanico non poteva che esserlo anche nella vita privata e infatti ha avuto sei figli – tutti riconosciuti – da varie donne diverse; quindi, a 90 anni suonati, si è sposato con la segretaria, più giovane di lui di una quarantina d’anni. I figli hanno provato a interdirlo, ma il giudice ha respinto l’istanza, riconoscendo che il cervello di Angelo Dalle Molle non era affatto annebbiato. Dopo la morte di Dalle Molle, avvenuta nel 2002, si è celebrato un processo per l’eredità. La vedova aveva ricevuto 32 milioni di euro e la villa Barbariga, la corte ha stabilito che ne versasse 7 ai figli che, in ogni caso, avevano ricevuto la loro quota. La Fondazione ha poi venduto la villa a un antiquario milanese, l’attuale proprietario. Forse, tra tutto quel che si può dire di Angelo Dalle Molle, la definizione migliore è quella che aveva dato Alberto Mioni: «È l’ultimo mecenate».
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