Storia

Come fare finta di fare i conti col passato. Anche il proprio

9 Luglio 2021

Di «Fantasmi del fascismo» Piero Calamandrei parla nell’ultima sezione del suo Uomini e città della Resistenza di fronte alla ripresa del Movimento sociale italiano a partire dal 1952.

Metafora saliente. Quella immagine del fantasma del fascismo, un sistema, come scrive riprendendo in chiusura una riflessione acuta di Franco Venturi, che è segnato dal «dominio della parola» – o meglio «della parola più l’altoparlante» per citare Venturi – Simon Levis la riprende non solo in relazione a ciò che torna, ma soprattutto su una presenza interiore con cui non si fa mai per davvero i conti. Una condizione che riguarda, precisa, il mondo della cultura italiana all’indomani del 1945- che per davvero non “espelle mai da sé o fuori di sé – ciò che ha interiorizzato nel corso del ventennio. Soprattutto gli intellettuali affrontano di malavoglia, la dimensione del proprio coinvolgimento nel regime.

Che cos’è accaduto agli intellettuali tra gli anni ’20-30 e poi intorno al tempo della caduta e poi della Resistenza? Che scelte hanno fatto negli del regime? E poi: come a vicenda chiusa si sono confrontati tanto in pubblico come in privato con imbarazzo, comunque di fatto eludendo quel confronto? Oppure diluendolo ricorrendo a una descrizione generale?

La domanda: Gli intellettuali sono conformisti o sono anticonformisti? Quanto sono stati organici gli intellettuali italiani al potere e più in particolare al fascismo? Ovvero quanto sono stati conformisti? E nei loro cambiamenti quanto confermano il loro conformismo?

Come si erano posizionati rispetto al fascismo e come avevano poi descritto il loro percorso quando, a fascismo caduto, provano a fare i conti con quell’esperienza.

Simon Levis Sullam ripercorre quattro storie Federico Chabod (1901-1960); Piero Calamandrei (1889-1956); Luigi Russo (1892-1961) e Alberto Moravia (1907-1990) e in forma diversa ritrova uno stesso tema: «fare i conti» con il proprio passato non è mai, se non in forma «obliqua» raccontare di sé, ma è soprattutto dispensare parole (talvolta anche pregne  di senso e comunque non solo retoriche, su ciò che ha significato vivere in dittatura, senza accompagnare quella riflessione con un resoconto di sé. Quel resoconto, anzi rimane «in ombra».

Nel percorso di Federico Chabod, esemplari sono le dichiarazioni non ambigue nel tempo della guerra contro l’Etiopia, festeggiando l’Italia imperiale così come la sua partecipazione a quella che si può considerare l’impresa editoriale più fascista del regime – il Dizionario di politica di cui figura di punta è Carlo Costamagna, teorico dello Stato fascista e anche del diritto razzista italiano.

In quello di Piero Calamandrei il tema a lungo è il suo sottrarsi all’impegno pubblico, ma anche la sua scelta di svolgere un ruolo per le sue competenze giuridiche nella stesura del Codice di procedura civile. Un codice tuttora in vigore, che pur con le opportune revisioni è rimasto sostanzialmente immutato nell’impianto e nella visione complessiva. Una scelta che Calamandrei non smentisce anche dopo il 1945 ma affermando essersi trattato di collaborazione strettamente tecnica.  Una valutazione che conferma quanto, – a proposito delle critiche che l’amico Sandro Policreti che lo aveva rimproverato per la sua collaborazione a far fare bella figura a un ministro fascista – scriveva nel suo diario il 14 marzo 1940: «Non ha tutti i torti: ma potrei decentemente sottrarmi a questa consulenza tecnica se può servire a dare agli italiani un codice migliore?».

Dunque partecipare attivamente non era che un dato tecnico. In un sistema dittatoriale la partecipazione operativa può darsi senza adesione? E in un sistema che è capace di controllare attentamente tutti i suoi “sudditi” è possibile che non si accorga di una partecipazione senza adesione o che valuti questo dato come non rilevante? O forse questo dato non è semplicemente un «rimettere a posto le cose a futura memoria»?

Problema e profilo che ritorna nelle vicende e nelle procedure che Luigi Russo, a lungo solidale con Giovanni Gentile negli anni dell’Enciclopedia italiana, mette in moto a partire dal crollo del regime. Significativo ciò che afferma alla riapertura dell’anno accademico 1944-1945 nella lezione inaugurale che tiene alla Scuola Normale di Pisa (su cui si sofferma Simon Levis) che segna la presa di distanza pubblica e la assunzione della categoria di «fascismo come parentesi» propria di Benedetto Croce e con cui Luigi Russo si riconosce.

Ma anche profilo che ritorna nel modo di descrivere la propria posizione da parte di Alberto Moravia (il capitolo più intrigante di questa libro che molto promette e molto mantiene). Il tema ovviamente è la categoria di indifferenza, ma anche e soprattutto quella di “conformista” due tappe essenziali della narrativa italiana Due concetti che sono la radiografia in movimento di una condizione interiore che quando fanno i conti con il passato di cui dichiarano di voler dare volto, in realtà affrontano un  percorso ricco di censura, idealizzazione, autocensura e rielaborazione .

Un profilo in cui alla fine, si descrive un processo per il quale confrontarsi con il fascismo è rimuoverlo dalla coscienza storica – quella propria, ma anche quella collettiva della nazione, sminuire le responsabilità (quelle proprie e quelle collettive) e censurare o idealizzare i comportamenti.

Nel frattempo, forse non è senza conseguenza che nel sentimento collettivo l’effetto, nel tempo attuale, sia la metamorfosi di un sentimento collettivo: da pensare il fascismo come parentesi a guardare l’antifascismo come ingombro.

 

 

 

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