Storia

In memoria di Claudio Pavone: la Resistenza, le scelte, gli uomini, le donne

30 Novembre 2016

“Non c’è indizio che riveli meglio il carattere di una società del tipo di storia che vi si scrive o non vi si scrive”, così ha scritto lo storico inglese Edward H. Carr. È una frase che a mio avviso dipinge perfettamente qualsiasi discorso si voglia fare sull’opera storica di Claudio Pavone.

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Per molti ricordare Claudio Pavone, deceduto nella mattinata di ieri, ha voluto dire tornare a riflettere intorno al suo libro Una guerra civile. Saggio sulla moralità nella Resistenza, (Bollati Boringhieri), edito per la prima volta nel 1991.

Di Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, tutta la mia generazione, e non solo la mia, credo, è debitrice.

Non solo per l’interpretazione della Resistenza come sovrapposizione di “tre guerre” (nazionale, di classe, civile), o per la questione dell’8 settembre come momento della “scelta”, o sulla questione della violenza, ma anche per due altri motivi: uno di “mestiere” e riguarda la capacità di proporre una gamma ampia di fonti e, ovvero di saper lavorare su una tastiera molto lunga dove contano le fonti politiche, letterarie, la memorialistica, la storia orale, ma anche la storia delle idee; l’altro di porsi il problema dell’ambiente, delle persone concrete, sia nei percorsi individuali, che in quelli di gruppo.

Diversamente, la Resistenza non è un corpo astratto, è un brulichio di individui che agiscono, scelgono, hanno sentimenti, provano smarrimenti, vivono drammi. Allo stesso tempo la Resistenza è stata assunta come un simbolo, è rimasta nella memoria di molti come un mito e si propone come un teatro di legittimità ad azioni che lo storico deve indagare per capirne la funzione, l’uso, la loro riattivazione anche ad anni di distanza.

Dunque il problema non era – e non è – la guerra civile, ma che cosa implica e include riconsiderare la Resistenza anche attraverso quella chiave (in termini di fonti, documenti, concetti, sensibilità, discipline coinvolte) e vederla “in atto”.

Ne parlerò nella seconda parte di queste mie considerazioni. Parlare di quel libro, infatti, significa per me capire la lezione di storiografia che Pavone propone dentro e con quel libro. Diversamente si rimane in superficie e ci si limita ad accogliere con favore o meno l’uso dell’espressione “guerra civile”.

Dunque la lezione di Claudio Pavone.

Claudio Pavone è stato molto di più di un libro ed è stato molto più di un singolo tema (la guerra civile). Per esempio, tema su cui non ho competenza, Claudio Pavone ha lavorato a lungo sul passaggio tra fascismo e Repubblica proponendo la categoria della “Continuità dello Stato”. Categoria che, non meno della “guerra civile”, ha diviso e fatto discutere per più di un ventennio il mondo della storiografia italiana e non solo (per esempio anche il mondo degli studiosi del diritto, area disciplinare su cui Pavone aveva molte competenze).

Claudio Pavone è stato molti mestieri. Ne indico alcuni (certamente ne dimentico molti): un archivista e forse uno dei migliori organizzatori di archivi e di guide agli archivi che l’Italia del secondo dopoguerra abbia avuto; un docente di grande umanità; un operatore culturale che ha sempre pensato che il problema dei documenti, dei manoscritti non era mai il documento singolare, ma era la serie, era il luogo o il mazzo di carte dove si trovava, dove era stato conservato e in che modo. E che uno storico, a differenza di un detective deve chiedersi dove ha trovato il documento che sta citando o utilizzando, come lo ha trovato. Soprattutto chiedersi, spesso, perché non si trovasse dove sarebbe stato logico trovarlo.

Perché il documento non è la scoperta della verità che rovescia il senso comune, è una traccia per riflettere su un uso, su una consuetudine, su come pensa un’istituzione. È una finestra che si apre su un mondo.

Anche per questo non c’era in lui il gusto o lo scandalo dell’inedito e c’era la consapevolezza che raccontare la storia di un ente, di un’istituzione, di una realtà organizzata, di una persona o di un gruppo di persone era possibile solo mettendo insieme documenti d’istituzioni, realtà, persone diverse anche lontane dai protagonisti al centro della sua indagine.

La convinzione era, come scriveva già nel 1970, e come torna a ripetere molte altre volte che non si fa la storia di un’istituzione – ma lo stesso vale per quella di un partito, di un gruppo politico, di un’organizzazione, di una persona – se ci si limita alle fonti conservate nell’archivio di quell’istituzione, di quel partito, di quel gruppo politico, di quell’organizzazione, o nelle carte private di quella persona). Ma che per scrivere la storia occorreva prima di tutto riordinare archivi, dare loro una struttura e un’organizzazione, costruire guide.

Da questo punto di vista, parlare oggi di Claudio Pavone in gran parte riferendosi a Una guerra civile significa non riconoscere che suo grande merito è stato di costruire – insieme a Piero D’Angiolini – la Guida generale agli Archivi di Stato italiani che di fatto consente oggi di avere un quadro, di muoversi nel patrimonio archivistico pubblico. E dunque significa il debito di riconoscenza che chiunque voglia lavorare e ricercare negli Archivi di Stato gli deve.

Anche per questo Claudio Pavone è molto più di un libro. Ma anche volendo parlare di quel libro è bene ricordare che Pavone non è solo un libro. E’, per esempio, una passione a scavare nella storia contemporanea indagando i contenuti delle parole che riempiono il vocabolario politico, culturale, o la memoria pubblica. La sua convinzione era che la memoria fosse una stratificazione di contenuti e non solo un album ordinato di componenti e dunque anche per questo scavare intorno a una parola era un modo per capire nel tempo presente la genealogia di un vissuto, di un costrutto culturale, di un percorso ideologico, della costruzione del linguaggio pubblico.

Quando nel 1993 decide di riprendere in mano e di rilanciare la rivista di Lelio Basso”Problemi del socialismo”, sceglie di darle un nuovo nome. Si chiamerà “Parolechiave” (il primo numero esce nel 1993)  e nel timone della rivista c’era (e c’è ancora, dopo 55 fascicoli, l’ultimo numero ha come paroachioave schiavitù) tutto Pavone: l’analisi della storia e dei significati di una parola; i modelli interpretativi che si sono confrontati su di essa; le esperienze storiche che in quella parola si riconoscono (nel tempo e in luoghi diversi); la rimessa in discussione dei significati; l’uso pubblico che l’aveva caratterizzata. Il tema ogni volta era e sono gli uomini e le donne, i vecchi e i bambini che hanno fatto propria (e soprattutto come hanno fatto propria) quella parola, cosa hanno pensato, sognato, creato, idealizzato.

Le parole come storia delle persone nel tempo . Non è affascinante?

Quella costruzione tuttavia era anch’essa il risultato di Una guerra civile. Ma più che del libro, del processo di costruzione del libro.

Un libro che improvvisamente proietta Claudio Pavone al centro della discussione pubblica in Italia. Ho sempre ammirato il suo carattere schivo, non urlato, il suo profilo di persona riservata, di figura totalmente lontana dalla “società dello spettacolo”, per la quale l’argomentazione aveva la prevalenza sul gusto della parola di fascino e dove ogni parola era sempre misurata.

Anche per questo molti, allora e dopo di allora, non gli perdonavano quel titolo e forse quel libro. Per altri, invece, quel libro fu una rivelazione, come se fosse una concessione a un lemma che nell’Italia del secondo dopoguerra apparteneva alla destra nostalgica di Salò (dimenticando che “guerra civile” era stato durante la Resistenza il modo in cui gli azionisti denominavano la Resistenza).

Per quelli di noi che avevano aspettato con ansia quel libro, che avevano nel tempo visto accumularsi pacchi di appunti minuziosamente suddivisi con il timore che quelle pile di appunti potessero confondersi e un malaugurato colpo di vento le confondesse, quel libro appunto era la dimostrazione che la pazienza di scavare aveva un senso.

Quel libro era prima di tutto la passione di leggere (di mettere insieme documenti politici, lettere, narrativa, riflessione storiografica, disegni, insomma in una parola tutto ciò che aveva dignità di documento).  Ma soprattutto rappresentava una grande lezione di metodo.

Claudio Pavone anticipava lì, proprio sul metodo, molte cose che poi avrebbe riassunto nel suo Prima lezione di storia contemporanea(Laterza). Quella storia voleva dire considerare le persone, scavare nel privato, ritrovare le parole.

Un percorso che riprendeva il progetto di Giovanni Pirelli e di Piero Malvezzi condensato nelle due raccolte delle Lettere dei condannati a morte della Resistenza italiana ed europea (Einaudi 1952 e 1954) in cui al centro, attraverso quei libri le molte vite, stanno i percorsi complessi e tormentati, spesso non lineari, di chi compie la scelta.

Ma se porsi il problema della scelta – quale Pavone mette al centro del primo capitolo fondamentale di Una guerra civile – voleva dire scavare nel passato, poi rimaneva il problema di che cosa fosse accaduto dopo a quelle tante figure anonime di uomini e donne, d’impiegati e contadini, che dopo il 1945 ripresero la vita di prima, non entrarono nella vita pubblica ma costituirono un pezzo della storia dell’Italia contemporanea.

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Un’Italia che nessuno ha mai scavato per davvero, e che indagare non sarebbe vano per tentare di capire varie cose. Per esempio: cos’è la realtà del paese; cosa significa “tornare a casa” dopo (senza risolvere tutto nella storia di Bube, anche se la vicenda messa al centro da Cassola è parte strutturale della storia delle emozioni e del vissuto del secondo dopoguerra italiano); come si ricostruisce il paese; come ci si sente parte di uno sforzo collettivo o se, invece, non si maturi un senso di delusione, di rancore, di estraneità.

In quelle domande, che spesso l’indagine storica non ha soddisfatto o ha solo sfiorato, su cui Pavone ha scavato a lungo, e ha invitato a scavare, stava anche un modo di indagare la storia di noi italiani non già come “carattere senza tempo”, ma come storia delle trasformazioni, che abbiamo avuto.

In altre parole: intraprendere una storia del carattere come indagine sulla trasformazione del “Paese Italia” come, in forma diversa dalla fine degli anni ’60, si erano posti intellettuali e operatori diversi, tra cui Luciano Cafagna, per prendere una figura che ha avuto un rapporto continuo nel tempo con Claudio Pavone, oppure Giulio Bollati, che nella scelta del titolo del libro di Pavone ebbe un ruolo fondamentale, come ebbe più volte a dire Claudio Pavone. Senza dimenticare Vittorio Foa, il vero “fratello maggiore” di Claudio Pavone.

È alla fine degli anni ’70 che Claudio Pavone apre quel laboratorio di letture orientate che nel giro di un decennio sbocca in Una guerra civile.

Quel lavoro non inizia a organizzarsi per caso.

Perché il discorso sulla Resistenza si riapra pubblicamente, occorre che si definisca un tema divisivo su cui contemporaneamente si ridisegnano le identità politiche, si definiscono le “enciclopedie culturali”, e che oltre le polemiche, ci siano intellettuali in grado di proporre temi, questioni, fonti, metodologie, in grado di andare oltre il senso comune.

La discussione sulla violenza alla fine degli anni ’70 (per tutti la discussione su Via Rasella) acquista questo significato, non tanto, comunque non solo, perché la realtà propone interrogativi ineludibili, ma perché qualcuno prova a proporre delle risposte o a mostrare che cosa significhi interrogare documenti.

Il mito della Resistenza era fortemente presente nel linguaggio, nell’immaginario, nelle parole dei militanti della “nuova sinistra” degli anni ’70 e come quel linguaggio alimentasse processi d’identificazione che si esprimevano negli pseudonimi adottati, negli slogan urlati, nella rivendicazione della Resistenza come appartenente solo alla sinistra nell’idea di autodifesa, nella pratica della violenza.

Tuttavia, se è vero che ci furono fenomeni d’identificazione o di recupero tanto dell’onomastica come nell’assunzione di denominazioni, già all’inizio degli anni ’70, è anche corretto dire che a lungo quel processo non sembrò costituire uno spartiacque. È con l’inizio della lotta armata, più specificamente con l’uccisione di figure pubbliche, ma anche di militanti che si oppongono che la questione diventa ineludibile. Anche perché gran parte dell’area della lotta armata rivendica la sua filiazione dalla Resistenza. Lì iniziano a delinearsi alcune questioni che poi trovano una loro organizzazione espositiva e riflessiva in Una guerra civile.

Pavone indica già intorno al 1980-1982 in alcuni interventi pubblici alcune questioni che poi tornano nel suo libro e indicano lo spessore dell’indagine storica che egli sta già costruendo. Ne indicano alcune a mio avviso significative:

  • la questione dei giuramenti alla banda di appartenenza o alla formazione cui si aderisce;
  • la dimensione della autonomia dei giovani rispetto alla generazione, anche antifascista, che li ha preceduti e con cui matura un rapporto conflittuale non solo in merito alle azioni, ma anche alle cose che si apprezzano o si disprezzano;
  • la scelta dei nomi di battaglia perché, spiega “la scelta di un nome fittizio è in fondo la scelta di un’immagine che uno vuol dare di se stesso al di là, cioè esprimendo con questo nome una ricapitolazione di quello che vorrebbe essere”.
  • Infine, non solo la violenza esercitata, ma anche quella subita come patto non scritto, ma cui non si può venir meno, una volta che si sia scelto la lotta armata.

È questo un primo passaggio.

Il secondo passaggio per Pavone si compie nel 1985. In quell’anno egli formula in modo organico la sua tesi sulla guerra civile e, di fatto, apre il dossier che nel 1991 precipita in Una guerra civile.

Al centro stanno due questioni: da una parte il problema della “resistenza passiva” e a quello della moralità connesso con il tema della violenza; dall’altra la convinzione che la categoria interpretativa di “guerra civile” non coinvolge solo gli attori primi (ovvero non descrive solo come i protagonisti classifichino ciò che stanno facendo) viceversa, e a distanza di tempo, soprattutto essa ha un significato centrale in relazione all’immagine della storia nazionale che si propone. Ovvero la legittimità di pensarla per fratture e conflitti.

In questo senso è importante l’operazione di discussione che Pavone sollecita a partire dal 1985 su ciò che in quegli stessi anni è al centro della discussione nella storiografia francese. In particolare a proposito del fascismo in Francia e del collaborazionismo, temi che complessivamente sono mancati alla storiografia in Italia quando si è trattato di affrontare complessivamente non solo e non tanto il fenomeno del fascismo regime, ma soprattutto ciò che esso ha significato in termini di comportamenti, innovazioni, atteggiamenti, culture. Una discussione che in Francia significa:

(1)    La definizione di una generazione di studiosi che propone un’esperienza di studio consolidata diffusa, dove si propone storia locale, sociale, culturale, politica, che implica la riorganizzazione e la definizione di un campo d’indagine articolato territorialmente e nazionalmente.

(2)    Quella ricerca è stata avviata da un doppio fenomeno pubblico; per un lato è stata la cinematografia, prima ancora che la storiografia, a porre il regime di Vichy come problema interno alla Francia; per un secondo lato è la storiografia non francese (Paxton, Sternhell, Stanley Hoffman) ad aver posto agli storici francesi tra anni ’60 e anni ’70 il tema del regime di Vichy come storia dell’identità francese.

In breve il problema è rappresentato da una sollecitazione che vive sia di forme diverse dalla scrittura storica e che per quella via si propone come tema di discussione pubblica; dall’altra il fatto che ci sia un dialogo proficuo con le altre storiografie e che non si pone il problema di salvaguardare la specificità anche attraverso la categoria di “eccezionalità” o di “caso Italia”. Il che significa porsi il problema di una riflessione storiografica comparata, ma anche avere della propria storia nazionale una visione non nazionalistica.

Tutto questo ha un valore più generale e non riguarda solo o esclusivamente la Resistenza. Significa porre la questione delle categorie culturali, oltreché storiografiche o metodologiche, attraverso le quali s’interrogano i fatti della storia, e s’indagano le culture politiche che quei fatti definiscono o contribuiscono a definire.

È una questione che Una guerra civile ha posto con potenza e forse anche con prepotenza. Ed è una questione ancora tutta aperta davanti a noi. E più significativamente è un processo di scavo ancora più coinvolgente se chi ci propone quello scavo, non è indifferente a quella storia, ne è stato parte, e dunque nel momento in cui ne scrive, esplicitamente dichiara che c’è anche una parte di sé – da governare certamente, ma non da occultare – con cui si dialoga e talvolta anche ci si confronta aspramente.

Scrivere la storia di un tempo e di un evento, mettendo al centro le forme della partecipazione, nel momento in cui si viveva l’esperienza concreta, e poi ritornare a riflettervi indagando come li abbiamo “archiviati” nella nostra mente non è solo un esercizio di ricostruzione tecnica, ma riguarda molte cose.

Categorie e atti come scelta, valori, violenza (esercitata e subìta), giustizia, morte (vista e data), pur calati in una dimensione quotidiana che contribuiva a dare a ciascuno di essi un significato nel tempo dell’evento, non sono idee fisse, icone cui si possa ricorrere per dare un senso alla propria azione in un altro e diverso contesto e in un altro tempo storico.

Era materia di un libro. Ma non solo di un libro. Era un modo, attraverso un libro, di mettere a problema un modo di fare e scrivere di storia.

Anche per questo, è bene ricordarlo, Claudio Pavone non è stato solo un libro o un libro solo. È stato molto di più.

 

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