Storia
Il fotografo di matrimoni che portò Piazzale Loreto sul New York Times
- La gente può capire in un giorno solo più che in vent’anni
Luisito Bianchi, La messa dell’uomo disarmato
Il 28 aprile 1945 la notizia della cattura di Mussolini, mentre tenta di fuggire in Svizzera e Milano è già insorta, raggiunge in Svizzera il fotografo Christian Schiefer, incaricato dal suo giornale, la Schweizer Illustrierte Zeitung, di mettersi sulle tracce dell’ex capo del fascismo. Nato a Davos da una famiglia di falegnami della Val Passiria, Schiefer ha allora 49 anni, fotografa da quando ne ha 15 e vive a Lugano-Paradiso, dove nel 1920 aveva aperto un proprio negozio, specializzandosi in ritratti, cartoline e prospetti per gli alberghi del lungolago. Negli anni della guerra, quando la Svizzera decreta la mobilitazione generale, è arruolato nel “Servizio stampa e radio”, che risponde alle direttive impartite dallo Stato maggiore, documentando soprattutto i rapporti tra popolazione civile ed esercito.
A Lugano Schiefer ottiene un lasciapassare del CLN, parte in treno con due Leica e giunge a Ponte Chiasso, in tempo per assistere alla consegna delle armi da parte dei reparti tedeschi. Entra in Italia e fa tappa a Como nel primo pomeriggio del 28 aprile: «La città era animata, le strade percorse da una folla festante che sventolava bandiere tricolori e cantava inni patriottici. Ci si abbracciava nelle piazze, i partigiani che affluivano dalle montagne erano accolti da manifestazioni di irrefrenabile simpatia». Parte per Milano con una macchina della Croce rossa scortata dalla Guardia di finanza e dai partigiani. Ovunque, in una città devastata dalla guerra e dove si soffre per la fame (persino le aiuole dei giardini sono state trasformate in orti) trova manifesti inneggianti agli anglo-americani e i ritratti dei partigiani caduti. Arriva all’Hotel Diana, dove alloggia il viceconsole svizzero, nel tardo pomeriggio del 28 aprile. Il giorno dopo, una domenica, all’alba, incontra per le scale un anziano cameriere: «Hanno fatto bene ad ammazzarli, quei vigliacchi… Li hanno portati a Piazzale Loreto».
Non era stato casuale il ritrovarsi in quella piazza di partigiani e popolazione. Fin dai primi giorni della Liberazione, qui avevano sfilato formazioni partigiane: nel pomeriggio del 27 le colonne dell’Oltrepò pavese, l’indomani le brigate di Cino Moscatelli, che entrano dalla Valsesia a Milano da viale Certosa. Piazzale Loreto, che trae la propria denominazione da una piccola cappella costruitavi agli inizi del XV secolo, dedicata alla Madonna di Loreto, all’epoca dei fatti che narriamo, era uno dei punti di maggior transito del pendolarismo da Milano verso le fabbriche della Bianza e viceversa, con un transito quotidiano di diverse decine di migliaia di lavoratori. Un anno prima, la mattina dell’8 agosto 1944, poco distante da qui una bomba aveva fatto esplodere un camion della Wehrmacht parcheggiato di fronte al 77 di viale Abruzzi, a pochi metri dal Titanus, un albergo diventato la sede del comando logistico tedesco. Sei passanti restano uccisi e altri dieci feriti (le cifre non sono però, ancora oggi, certe). Tutte le vittime erano italiane. I tedeschi comandano per rappresaglia la fucilazione di quindici “comunisti e terroristi”, detenuti a San Vittore senza alcuna imputazione specifica. La rappresaglia viene eseguita dai militi della Guardia nazionale repubblicana e della Brigata Muti due giorni dopo, alla confluenza di corso Buenos Aires con via Andrea Doria, vicino ad un muro che delimitava un distributore di benzina in disuso. Per ordine dei nazisti, i cadaveri vennero lasciati sul posto fino alle sei di sera: era infatti tipico della strategia nazifascista ricorrere, per ammonimento, alla pubblica esposizione dei corpi del nemico. L’ultimo viaggio di Mussolini verso piazzale Loreto inizia, forse, proprio quel 10 agosto 1944. Non è un caso che molti testimoni degli eventi confrontino le due piazze e le due folle: quella del 10 agosto 1944 e quella del 29 aprile 1945.
Quando alle 22.30 circa della sera del 28 aprile 1945, un camion di partigiani guidati da Walter Audisio, “il colonnello Valerio” – l’esecutore materiale, secondo la versione ufficiale, dell’esecuzione di Mussolini a Giulino di Mezzegra – arriva a Milano trasportando i corpi del duce, della sua amante Claretta Petacci e del fratello di quest’ultima, Marcello, insieme a quelli dei quindici gerarchi fascisti fucilati a Dongo, la scelta di Piazzale Loreto, di ‘mostrare’ la morte e proclamare la fine del fascismo e della guerra non è casuale, ma voluta interpretando «in modo letterale quel criterio toponomastico dell’esercizio della vendetta che informa la giustizia partigiana durante i giorni dell’insurrezione» (Sergio Luzzatto, Il corpo del Duce).
Schiefer esce dall’albergo e alcuni partigiani lo indirizzano al comando del CLN di viale Lombardia, dove viene preso in custodia da un partigiano con il cappello e la tuta da alpino, “un carabiniere con la penna” . Vorrebbe recarsi subito a Piazzale Loreto, ma prima lo guidano al Politecnico di piazza Leonardo da Vinci, sede del comando del 6° settore CLN, dove era stato processato Achille Starace, segretario del Partito nazionale fascista dal 1931 al ’39, artefice dei più grotteschi riti del regime (dal foglio d’ordini al ‘saluto al duce’), poi caduto in disgrazia presso lo stesso Mussolini, che lo definiva pubblicamente “un cretino obbediente”. Poco dopo il fotografo svizzero documenta un’altra scena consueta in quei giorni, esaltanti e terribili, della Liberazione: la ‘punizione’ di una collaborazionista in viale Abruzzi. Ma la sua attenzione è nuovamente attratta dalla folla che corre verso Piazzale Loreto, dove si sta compiendo «un rito moderno di detronizzazione che mantiene alcuni degli aspetti del rito antico» (Caterina Bianchi, Il nudo eroico del fascismo).
Il cordone di partigiani non riesce intanto a fermare la pressione della massa, nonostante l’intervento dei pompieri, e decide di issare i corpi dove allora c’era la pensilina di un distributore di benzina: per primo Mussolini, poi la Petacci, Pavolini, Barracu, Mezzasoma, Zerbino. Nella memoria di molti testimoni di quel giorno rimane impressa la scena di una donna che estrae dalla borsetta una pistola e spara tre colpi contro il corpo di Mussolini, uno per ognuno dei suoi figli morti nel bombardamento delle scuole di Gorla, il 20 ottobre 1944, o l’immagine di un uomo che urla al cadavere penzolante del Duce: «Fai il discorso, adesso, fai il discorso!».
Christian Schiefer, Milano, Piazzale Loreto, l’esposizione dei gerarchi sulla pensilina, 1945 - Fonte: Archivio di Stato del Canton Ticino (Svizzera), Fondo fotografico Christian Schiefer
Le foto di Schiefer mostrano una piazza quasi irriconoscibile per i milanesi di oggi, per le evidenti distruzioni causate dai bombardamenti e per i mutamenti urbanistici successivamente intervenuti. Ma, soprattutto, ci rivelano le diverse espressioni, ed i rispettivi stati d’animo, della folla, sempre più numerosa dopo che Radio Milano Libera aveva dato la notizia: stupita, felice, attonita, ma soprattutto assuefatta agli orrori della guerra. A stento Schiefer riesce a scattare le sue foto: «Potei avvicinarmi perché il partigiano che si prendeva cura di me, dandomi la mano come se fossi un bambino, sparava in aria a intervalli dei colpi di pistola gridando: “Largo! Stampa estera! Posto! Posto!”. E quando una partigiana voleva farmi scendere dal camioncino sul quale ero salito, lo stesso partigiano protettore sentenziò: “Il fotografo può restare”». E il fotografo assiste dall’esterno, come cittadino di un paese neutrale, ma non può evitare una qualche forma di partecipazione: «I più esagitati sparavano ancora su quei corpi già morti, su quelli appesi e su quelli sdraiati. Cosa non può fare una incontenibile rabbia nel corpo e soprattutto nell’anima! Professionalmente parlando si è soddisfatti quando un servizio d’informazione riesce ad avere un forte seguito nel pubblico; qui, però, mi è rimasto un grande malessere di fronte a quelle scene di crudeltà pur consapevole della giusta condanna che la storia ha dato alla dittatura fascista che le aveva causate».
Sembra peraltro legittima la domanda che si pose Leo Valiani, se quella folla non fosse, almeno in parte, la stessa delle adunate oceaniche. Anche il Washington Post del 1° maggio 1945 sottolineò che «senza dubbio c’erano in quella folla persone che avevano già seguito il Duce e l’avevano acclamato fino a perdere la voce; è possibile anche che ci sia attualmente tra gli americani chi trova soddisfazione all’idea che il corpo di Mussolini sia stato insultato con gli sputi e calpestato, persone che hanno ammirato l’uomo di cui si affermava che aveva messo la parola fine agli scioperi e che faceva partire i treni in orario. Una domanda, quella di Valiani, alla quale Arturo Colombi, su l’Unità, rispose indirettamente (e forzatamente) così: «La classe operaia ha sempre lottato contro il fascismo; il popolo italiano non è mai stato fascista, è stato contro la guerra fascista e si è rifiutato di combatterla». Più probabilmente, però, ha ragione Giovanni De Luna quando, coerentemente con le note osservazioni di Michel Foucault sull’ambiguità del rapporto sovrano-popolo nei supplizi, scrive dell’intrecciarsi, in quella stessa piazza e in quello stesso giorno, di «una miriade di altri percorsi che appartengono invece contemporaneamente a molte altre Italie», da quella fascista, a quella della “zona grigia”, da quella della vendetta a quella delle “minoranza eroiche”.
Christian Schiefer, La folla di Piazzale Loreto, 29 aprile 1945 - Archivio di Stato del Canton Ticino (Svizzera), Fondo fotografico Christian Schiefer
Quando Schiefer lascia la piazza alle 11.30 sente alcuni colpi secchi: “Hanno ucciso Starace”. Un’altro auto dei partigiani lo riaccompagna a Chiasso. Sviluppa subito le immagini e le invia al giornale, la Schweizer Illustrierte Zeitung, che però non le pubblica, giudicandole troppo crude. Varcano invece l’Atlantico e il 1° maggio appaiono sul New York Times e su altri importanti quotidiani americani. In Italia il commercio delle foto scattate da altri fotografi presenti a Piazzale Loreto costrinse il prefetto di Milano, Riccardo Lombardi, a sequestrarle – non sappiamo se per pietà o per prudenza, o per entrambe le cose. A guerra finita, Schiefer ritorna al suo negozio a Lugano, alle sue cartoline, ai suoi matrimoni, alle foto di qualche celebrità che appare sul lago in occasione dei primi festival del cinema di Locarno. Nel 1951 va perduto parte del suo archivio fotografico per l’allagamento del locale dove era stato depositato. Non ne fa un dramma: «Le perdite sono gli inconvenienti di una vita troppo lunga». Nel 1986, dopo 73 anni di attività, cede il suo negozio. Muore a Lugano nel 1998, a 102 anni. La prima mostra fotografica personale gli è stata dedicata nel 2003, dall’Archivio di stato del Canton Ticino di Bellinzona, cui ha lasciato il suo fondo fotografico.
*** Giovanni Scirocco insegna storia contemporanea all’Università di Bergamo. Si occupa da tempo di Piazzale Loreto (nei suoi dintorni è nato, ha studiato e vive) e delle narrazioni dei fatti storici che vi sono accaduti. Questo articolo è parte di un lavoro più ampio che, prima o poi, spera di concludere, anche in ricordo del padre, che di quegli eventi fu testimone.
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