Storia
Che senso ha ancora – e perché celebrare – il Giorno della Memoria?
«Il mondo odia un ebreo che reagisce. Il mondo ci ama solo quando dobbiamo essere compatiti» (Golda Meir)
In questa settimana ricorre il Giorno della Memoria, 27 gennaio, istituito con legge 211 del 20 Luglio 2000 dal Governo Amato. La legge dice :
«La Repubblica italiana riconosce il giorno 27 gennaio, data dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz, “Giorno della Memoria”, al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati.
In occasione del “Giorno della Memoria” di cui all’articolo 1, sono organizzati cerimonie, iniziative, incontri e momenti comuni di narrazione dei fatti e di riflessione, in modo particolare nelle scuole di ogni ordine e grado, su quanto è accaduto al popolo ebraico e ai deportati militari e politici italiani nei campi nazisti in modo da conservare nel futuro dell’Italia la memoria di un tragico ed oscuro periodo della storia nel nostro Paese e in Europa, e affinché simili eventi non possano mai più accadere».
Dopo i primi anni di osservanza anche abbastanza entusiastica del dettato della legge, la percezione di molti è che si stia vivendo di recente un periodo di osservanza riluttante, talvolta poco più che burocratica. Le cause sono complesse da comprendere, cercherò di dire quanto penso.
Dopo poco tempo dalla promulgazione di questa legge, la destra politica rispose a quella che era percepita come una “ricorrenza di sinistra”, con una legge che ricordava il massacro delle foibe e l’esodo giuliano dalmata, la legge 30 marzo 2004 n. 92. Al di là del giusto e importante ricordo di una tragedia – che non poteva però assolutamente essere paragonata all’Olocausto-, quella fu in gran parte una operazione di relativizzazione, con effetto di distorsione e banalizzazione, della Shoah. Il senso profondo di quella operazione era che ognuno ha i suoi morti da commemorare, morti causati dai relativi “cattivi della storia”. Da una parte i nazisti, dall’altra i comunisti.
Un colpo al cerchio e uno alla botte, insomma, con l’effetto di inflazionare la memoria e con il risultato di relativizzarla.
Ma quale era il senso vero legge 211/2000 – che recepiva a livello nazionale la Dichiarazione di Stoccolma (a conclusione dello Stockholm International Forum on the Holocaust) – del 26-28 gennaio 2000? Essa aveva come scopo che la memoria della Shoah fosse una “commemorazione” per cementare – quasi in un memento e contrario – i valori fondanti dell’ Unione Europea. E in tal senso dì lì a pochi anni (2005) sarebbe stato proclamato a livello internazionale anche dall’ONU il 27 gennaio come Giorno della memoria della Shoah.
Nel messaggio di Romano Prodi, Presidente della Commissione europea a Yad Vashem (Gerusalemme), il 28 febbraio 2000, era detto: «Sessant’anni fa in Europa è stata scritta la più orribile pagina della storia umana. L’Europa non ha dimenticato e non vuole dimenticare. Per questo, come primo atto della mia presidenza, sono andato ad Auschwitz. Per questo, oggi sono qui. Auschwitz, Yad Vashem sono i luoghi della memoria. Auschwitz, Yad Vashem sono i luoghi da cui partire per costruire il futuro. L’Europa che abbiamo costruito al termine e sulla base della tragedia della guerra e della Shoah è e vuole essere una terra, un’Unione di pace, di libertà, di rispetto dei diritti e delle identità, di sicurezza. Per tutti e per ciascuno, quali che siano l’origine, il colore della pelle, la fede. Questi sono i valori che l’Europa è impegnata a garantire e a difendere».
Nel Discorso in occasione dell’inaugurazione dell’Osservatorio Europeo dei Fenomeni di Razzismo e Xenofobia, a Vienna il 7 Aprile 2000 Romano Prodi, disse: «Ora l’Europa può avere un futuro di pace, può costruire un grande disegno di pace, solamente se non dimentica, se si impegna in una cultura della memoria, che renda consapevoli tutti e in particolare i giovani che ciò che è accaduto può ancora accadere. È questo lo strumento per riconoscere e denunciare oggi il razzismo nelle sue nuove figure, la xenofobia nella sua pretesa ottusa di rialzare muri di inimicizia nei confronti di chi è diverso da noi per storia, cultura e tradizione».
Spesso, specie a sinistra, (e anche in occasione della discussione parlamentare per la legge 211/2000) si tende a includere nel memoriale della Shoah, anche il memoriale di altri genocidi, col risultato di fare un gran calderone. Si tratta di un argomento delicato, che attiene al concetto di unicità o singolarità (due concetti invero distinti) della Shoah. Forse il concetto più adeguato è, ad avviso di molti, quello di esemplarità. E in tal senso, pur nella sua caratteristica per molti aspetti unica, l’evento Shoah può valere come un memento per ogni violenza genocidaria perpetrata nella storia. Eppure, se c’è un carattere assolutamente unico di essa è che è accaduta in Europa, in qualche modo il centro della “civiltà occidentale”, la patria dei diritti, dell’umanesimo, della libertà, della cultura. La Giornata della Memoria deve essere quindi il giorno in cui rinsaldare il cemento dei valori che costituivano l’Unione Europea, essa è di fatto l’unica commemorazione davvero di tutti gli europei.
Personalmente mi dedico tutto l’anno a studiare e “fare memoria” della Shoah, ma talvolta il 27 gennaio ho la tentazione di non fare né dire nulla. Vedo molto spesso una certa insofferenza, mista a retorica di circostanza, nel modo in cui molti operatori scolastici, ma anche amministratori, e politici a tutti i livelli, si rapportano a questa giornata. Vedo inoltre che prevale una retorica vittimaria: la celebrazione dei morti. Questo i ragazzi lo sentono, e fanno finta di osservare un contegno serio di circostanza, salvo poi, sbrigata la faccenda e dismessa la faccia da cerimonia funebre, continuare come se nulla fosse le lezioni o a compulsare non visti i loro smartphone.
Ho studiato a Yad Vashem, ho imparato che studiando la Shoah non si dovrebbe commemorare i morti, quasi che esso fosse una specie di 2 novembre laico, ma ricordare i vivi e anche i resistenti. In Israele Yom Ha Shoah (יום השואה yom ha-sho’āh), o Giornata del ricordo dell’Olocausto, ricorre il ventisettesimo giorno di Nissan, nel calendario ebraico. Si ricorda la data dell’inizio dell’insurrezione nel Ghetto di Varsavia.
Per questo io in questa settimana parlerò dell’Insurrezione del Ghetto, e anche di una pagina quasi sconosciuta in Italia, cioè l’ organizzazione dell’Oneyg Shabbes di Emanuel Ringelblum e compagni. Oyneg Shabbes (“gioia dello Shabbat” in yiddish) è il nome in codice di un archivio segreto creato nel 1940 nel ghetto di Varsavia da un gruppo di più di sessanta persone che comprendeva storici, scrittori, giornalisti, rabbini e assistenti sociali guidati dallo storico ebreo Emanuel Ringelblum. L’archivio includeva saggi, diari, lettere, monografie, giornali, disegni, poster murali e altri materiali riguardanti non solo la cronaca dettagliata delle disumane condizioni di vita nel ghetto e la lotta per la sopravvivenza degli ebrei durante l’occupazione nazista, ma anche l’individuazione dell’imminente loro sterminio. Nell’imminenza della liquidazione del Ghetto, i membri dell’organizzazione nascosero nei sotterranei delle case, in scatole e bidoni di latta, gran parte della documentazione. E dopo la guerra molto materiale fu rinvenuto, tra le macerie della città distrutta.
Anche scrivere è una forma di resistenza, perché significa testimoniare cioè che è stato. Alcuni del gruppo di scrivani presero parte anche alla lotta armata che concluse la vita degli ebrei di Varsavia. 500.000 persone vi avevano abitato, ne rimasero poche migliaia. I resistenti che volevano vivere e combattere per la giustizia e contro l’inumanità, anche di essi occorrerebbe fare memoria il 27 Gennaio.
Per quanto riguarda il nostro paese, il Giorno della Memoria dovrebbe innanzitutto essere dedicato a ricordare non solo le vittime, ma anche i carnefici, e soprattutto gli indifferenti.
Per l’Italia gli indifferenti furono la stragrande maggioranza dei cittadini che nel ’38 non dissero nulla di fronte alle leggi razziste.
Nelle prime pagine di un libro memorie del 2000, Vittorio Foa scrive: «Ecco un nodo che è amaro. Dall’arrivo delle truppe alleate, nel 1943, al 1948 l’Italia liberata dal fascismo si è affollata di illustri antifascisti che si distinsero, appunto come antifascisti, nel teatro della cultura italiana. Erano cattolici, liberali, azionisti, comunisti (molti). A parte Benedetto Croce e i pochi reduci dall’esilio e dalle carceri, non uno di quegli illustri antifascisti aveva detto una sola parola contro la cacciata degli ebrei dalle scuole, dalle università, dal lavoro, contro quella che è stata un’immonda violenza. I nomi che mi vengono subito in mente sono quelli della mia parte politica, taciturni come tutti gli altri. Mi riesce difficile rinunciare a questo discorso anche se non so bene perché diavolo lo faccio. Forse non sto cercando una condanna morale ma solo il riconoscimento di un fatto» (V. Foa, Passaggi, Einaudi, 2000, pp. 4-5)
La Giornata della Memoria dovrebbe servire a combattere l’antisemitismo latente, a rinsaldare i valori della nostra costituzione, e della Unione Europea, a combattere il razzismo, la discriminazione di ogni diversità, a favorire i valori dell’accoglienza e dell’inclusione. La retorica celebrativa e vittimaria dei morti ha stufato, non dice più niente ed è del tutto inutile. Bisogna celebrare i valori della vita, dell’umanità, e della resistenza, che continua.
Ridurre il Giorno della memoria a cerimonia di lutto, (senza che questo ricordo – Zakhor corrisponda a un impegno perché non accada più) significa non aver compreso il suo vero senso memoriale. Ed è, questa riduzione, una forma latente di “razionalizzazione” e “rimozione” – di fronte al fatto che, in vari modi e forme, l’Evento potrebbe di nuovo riaccadere. Come dice Anna Foa, La shoah non è una questione ebraica, ma un monito perché niente di simile succeda non solo agli ebrei, ma a chiunque.
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