Storia
Che cosa ci resta di utopia?
Cosa ci resta di utopia a 500 anni dalla prima edizione dell’Utopia di Thomas More?
L’idea è che utopia sia un limite, forse imbarazzante da cui abbiamo preso congedo, forse con tristezza, ma sempre liberandoci da una scommessa con il futuro che per alcuni sembrava un inganno, per altri un incubo.
Dopo tuttavia resta il vuoto o la sensazione che quella rimozione non sia stata rimpiazzata da qualcosa di maggiormente soddisfacente. Da qui dunque l’opportunità di tornare a fare i conti, laicamente con l’utopia.
Credo che sia importante distinguere tra l’utopia che ci siamo portati dietro a lungo e il bisogno di utopia che rimane. Non è detto che quel bisogno si riempia degli stessi contenuti che abbiamo più o meno coltivato per anni. Certamente quel bisogno deve fare i conti con i molti progetti politici che nel corso del ‘900 hanno rappresentato o preteso di rappresentare l’idea di utopia (fiorse più precisamente di dare risposte al desiderio di utopia).
Di nuovo è utile riprendere in mano quel libretto che esce nel 1516 non tanto perché quello che vi viene raccontato programmaticamente esaurisca i contenuti dell’utopia di noi moderni ma perché in quel testo si condensano sia i sogni che alcuni incubi che hanno connotato l’immaginario utopico. Da lì dunque è bene ripartire.
All’inizio sta un sogno soprattutto raccontato con ironia e anche con autoironia. Utopia prima ancora che un “non–luogo, come dice etimologicamente la parola, non si sa dove sia. Lo scrive candidamente Tommaso Moro, all’inizio facendo conto di descrivere precisamente la dimensione e la fisionomia dell’isola (l’unica cosa certa che sappiamo) scrive” Non ci è venuto in mente di chiedere – né a Raffaele di dire – in quale parte de mondo si trovi Utopia” e aggiunge: “Pagherei non so quanto perché la cosa non ci fosse sfuggita dal momento che provo una certa vergogna nel non sapere in quale mare sia posta l’isola di cui tanto ho parlato e che ci sono parecchie persone che bruciano dal desiderio di approdarvi …”.
Ma Utopia ha altri indizi che dovrebbero mettere in guardia il lettore ingenuo o entusiasta. L’isola è attraversata da un fiume. Il suo nome è “Anidro”, ovvero senz’acqua. La sua capitale si chiama Amauroto, ossia luogo ignoto. Il rappresentante delle famiglie che siede in consiglio accanto al principe si chiama Traniboro, letteralmente “grande mangiatore”, insomma un arraffone. il principe, infine si chiama Ademo, ovvero “senza popolo”.
Davvero un sistema perfetto?
Ma consideriamo il sistema normativo.
“Qui non c’è nessun povero, né alcun mendicante e sebbene nessuno possegga nulla tutti sono ricchi”, si legge quasi alla fine di Utopia. Potrebbe essere assunto come una buona sintesi del testo di Moro. Forse potrebbe essere l’insegna di un qualche cartello di benvenuto di una comunità utopiana: individua un desiderio e forse sintetizza efficacemente un contenuto.
Al di là degli slogan Utopia è un testo che si presenta come un racconto lineare (altra caratteristica propria dei tutti i trattati utopici e forse di tutti i progetti politici) e tuttavia un testo che ha più volti. Almeno due: racconta aspetti che di uno stile di vita, dell’affermazione dei diritti certamente sorprendenti per i tempi della sua scrittura, ma anche implicitamente ci racconta un’idea di mondo migliore che propone regole rigide e anche altamente problematiche.
Indico sinteticamente quelle riferite al primo campo: per esempio, qualità del lavoro, ritmo lavoro/riposo (non solo un massimo di 6 ore al giorno di lavori ma redistribuite nell’arco della giornata; organizzazione della vita della gioventù; recupero della delinquenza, secondo canoni rieducativi più che esclusivamente punitivi; educazione degli analfabeti; rifiuto della guerra di religione
A questi si potrebbe aggiungere: una politica volta a soddisfare i bisogni primari e eliminare le disparità; la proposta di una condizione di felicità non fondata sull’entusiasmo, bensì sulla temperanza (il che significa,nel linguaggio del ‘5-‘700 rifiuto del fanatismo); un’idea della vita fondata sulla salute, tant’è che Moro teorizza che è preferibile lam morte – dolce e assistita si direbbe nel gergo della nostra contemporaneità – quando non ci sia possibilità di guarigione.
Sono gli elementi che connotano gran parte dell’immaginario utopico inteso come vissuto felice.
Tutto bene dunque?
Non proprio perché altri elementi costituiscono il sistema normativo di Utopia. Per esempio la condanna nei confronti di colori che vogliono fuggire, l’invito esplicito di chi governa a denunciare coloro che non sono d’accordo (un elemento che poi si ripresenta in tutte le dimensioni disti piche delle utopie realizzate dove chi decide di “uscire dall’utopia” è di per sé “nemico”, “traditore”, comunque un “debole” che ha ceduto, e per questo non meritevole di rispetto, comunque “sanzionabile”).
Lo stesso vale per chi vuol viaggiare.
Spostarsi in Utopia non è atto libero, occorrono permessi. Chi viaggia senza permessi è condannato.
In altre parole la libertà a Utopia non è un bene di primaria importanza.
Che cosa rimane dunque alla fine? L’idea di benessere come sviluppo senza freni, come crescita inarrestabile. Utopia a lungo ha significato non solo redistribuzione equa, ma anche potenza. E’ un modello
E’ il modello di benessere e di equilibrio che il nostro tempo ha ridiscusso per cui sviluppo o abbondanza, sono state sostituite da limite, sostenibilità, contenimento.
Utopia anziché “massimo” è diventato “minimo”. Non più il “meraviglioso”, raccontato come sorprendente o stupefacente (in questo Utopia appartiene a quel mondo incontrato per la prima volta che descrive Marco Polo ne Il Milione)
Perché dunque utopia si afferma?
Fino a prima di Utopia, c’èil sogno della possibilità di miglioramento: è il sogno del lento riscatto che porta alla nascita e poi all’affermazione del Purgatorio come regno intermedio, qualcosa che sta in mezzo alla distopia dell’Inferno e all’Utopia perfetta del Paradiso. L’affermazione del Purgatorio dice che ciò che si afferma è l’idea di un mondo perfettibile, migliorabile, capace di riscatto.
Insieme, ed è l’idea che s’innesta con la grande peste della seconda metà del ‘300, c’è l’ansia di un mondo che improvvisamente riscopre la propria debolezza.
Il sogno utopico si accompagna alla ripresa, al fatto che esistono altri mondi in cui domina “il meraviglioso”. Mondi fatti di altri colori, con altra frutta, pieni di animali ignoti e di cibi che non si sono mai assaggiati.
Utopia è frutto di questa sensazione meravigliata che altri mondi sono possibili.
E’ una sensazione che forse noi oggi non proviamo più o stentiamo a provare..
La macchina di utopia parla e testimonia di una grande verità umana: al centro del mondo sta la curiosità, la sorpresa, la necessità di far fronte a qualcosa. In questo senso Utopia è la sfida, l’inaspettato.
Solo se non si sa cosa può arrivare, si può essere travolti dal nuovo che non si aspetta ed essere obbligati a trovare delle risposte in grado di replicare ala sfida. Se invece ci limitiamo alla ricetta della felicità, la conseguenza – quando la ricetta non funziona e l’investimento di immaginario che ha dato luogo al sogno politico si dimostra fallimentare – non può che essere il ripiegamento, al più la sopravvivenza. Il disinvestimento sul futuro.
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