Storia
Centrale rischi: la nuova peste
Intendiamo ripercorrere, in questa riflessione, il grave fenomeno che colpisce chi è inesorabilmente segnalato alla centrale rischi del sistema della Banca di Italia.
Oramai attraverso la segnalazione si provoca, ineluttabilmente, la distruzione dell’impresa e si rende incipiente il grave danno: l’impossibilità di poter accedere ad altre fonti di credito, indispensabili per un nuovo processo di intrapresa economica.
Chi è segnalato esce dal mondo dell’imprenditoria ed è rimosso dal circuito produttivo.
La segnalazione alla centrale rischi rappresenta una gogna, la mormorazione telematica, che porta al pubblico ludibrio, alla definitiva marchiatura del soggetto, non più assimilabile dal sistema.
Si pone il segnalato come imprenditore marcio, come mela bacata, non più affidabile per gli istituti di credito, che buttano via, come ciarpame, materiale di risulta, la sua impresa, che deve solo scomparire, fallire e subire, senza che nulla si possa fare altrimenti, il linciaggio morale, scaturito dalle peggiori vessazioni bancarie.
La devastazione che si è provocata con il fenomeno della ingiusta segnalazione alla centrale rischi assurge oramai a tragedia dell’economia per i suoi effetti perniciosi.
Siamo ad una nuova peste con un untore, che, però, non subirà alcun processo.
Infatti, anche se le banche dovessero incautamente sbagliare nel segnalare quella impresa alla centrale rischi, perché non ne sussistono i presupposti, non subiscono alcuna punizione dall’ordinamento.
Si evidenzia, dunque, un vuoto normativo nel sistema giuridico: manca una legge che commini alle banche una punizione, se errano nel segnalare un correntista alla centrale rischi.
Gli imprenditori segnalati sono come gli appestati e come tali, in modo infamante, devono essere allontanati, confinati, spazzati via, perché provocano un ulteriore contagio.
La peste è la peggiore delle malattie, perché porta con sé separazione, esilio, bestialità.
Si è parlato in letteratura di una metafisica della peste, per illustrare proprio una categoria metastorica e filosofica, atta a farci comprendere, simbolicamente, il fenomeno della devastazione e dell’annichilimento umano.
Parole mirabili, inscalfibili sono state scritte, in proposito, in un bellissimo romanzo di Albert Camus: “La Peste”.
È ambientato ad Orano, una città tranquilla dell’Algeria. Il romanzo fu scritto all’indomani della seconda guerra mondiale e, nella sua struttura simbolica, intendeva richiamare il fenomeno del nazismo, che aveva provocato l’Olocausto.
Nella poetica del grande scrittore francese una tragedia dell’umanità, di così pervicace portata, non doveva più ripetersi, seppure declinata con altri totalitarismi.
Ebbene la peste è in primo luogo separazione, esilio, allontanamento, rimozione: “chi ne è colpito non riesce più a risalire la china, non pensa mai al giorno della sua liberazione dalla malattia, tiene sempre gli occhi bassi, è incagliato a mezza via tra gli abissi e le cime, la speranza con il futuro ricongiungimento con la vita è lontana, si vive nell’abbandono ed i giorni passano senza direzione. Ci si sente come un’ombra errante, spenta in sterili ricordi, radicata nella terra del dolore, con una memoria desertificata: l’unico rimedio è la fantasia: far correre i treni e colmare le ore che passano inesorabili e nell’assoluta inanità, solo con i ripetuti rintocchi di un campanello, sebbene ostinatamente silenzioso”.
È la condizione di chi è segnalato: se prima godevi della fiducia della tua banca, dopo la segnalazione i fidi vengono contratti, si riducono sino alla revoca tassativa. La banca reclama il rientro, il ripianamento del debito senza considerare che forse, e senza forse, il suo credito può essere intriso di usura, di anatocismo, non secundum legem, ma contra ius, contro la legge.
Ma, intanto, prima che si possa richiedere un intervento giurisdizionale che ponga giustizia e metta ordine, il correntista deve rientrare assolutamente, pena una procedura ingiuntiva che possa escutere le fideiussioni fornite e costituire titolo per un’ipoteca giudiziale, che inesorabilmente condurrà al pignoramento.
La segnalazione è aberrante, perché provoca l’allarme nel sistema ed induce le altre banche al richiamo del correntista: tenere l’ordine per i propri conti. Se non potrà cancellarla in un torno di tempo ragionevole, gli stessi istituti saranno costretti, anche essi, a tagliare le linee di credito concesse, a revocare i fidi.
È la fine dell’impresa, il suo fallimento con inevitabile ricaduta, ad effetto cascante, per gli operai, che saranno licenziati, per i fornitori, che non saranno più pagati, per gli stessi imprenditori, che affolleranno ed impingueranno le fila dei disoccupati. E non possono rientrare nel sistema, né chiedere altri fidi ad altri istituti di credito. Subiranno protesti cambiari. Perderanno anche l’onore di essere prima che imprenditori padri di famiglia, mariti. Avvertiranno quel danno esistenziale, perdurante, endemico, che si racchiude e si identifica nella perdita di sé, conosceranno il lazzaretto di manzoniana memoria.
Oggi il sistema della segnalazione alla centrale rischi è divenuto estorsivo e ritorsivo.
Se un correntista intende mettere in discussione il suo rapporto con una banca, perché, per esempio, intende verificare ed appurare in che modo siano stati trattati i suoi conti e, dunque, reclama, attraverso una lettera o una citazione giudiziale, che gli siano restituiti interessi che la banca abbia trattenuto illegalmente, per tutta risposta ed inauditamente viene segnalato alla centrale rischi. Tale grave, ingiusto ed illegittimo comportamento non viene punito da nessuna legge: quest’ultima è a difesa del più forte.
È un sistema che produce solo devastazione e peste economica: le banche dovrebbero richiedere una segnalazione alla centrale rischi solo se ne ricorrono le condizioni e dopo aver sentito all’uopo l’imprenditore.
Accade, invece, che si è segnalati perché si determina un semplice sconfinamento, un inadempimento di una rata di un mutuo, di un piano di rientro: non vi può essere in questi casi comparazione ad una strutturale crisi dell’impresa, che culmini con la decozione.
C’è un uso smodato ed incontrollato, profondamente illegale dello strumento della centrale rischi.
Le Banche impunite sono paragonabili agli untori che spargono peste, imbrattando le mura della città di unguenti malefici: l’aria è infestata ed è insopportabile.
Ma non c’è processo alcuno per i più forti. L’impunità delle banche produce miseria e peste, nel silenzio omertoso del sistema.
Una banca, senza ritegno, segnala, perché deve impaurire l’imprenditore o punirlo.
Dunque, senza neppure convocare l’imprenditore, che non versi in uno stato di decozione, ma che sia stato semplicemente inadempiente, la banca ex abrupto, senza sentir ragione alcuna, segnala alla centrale rischi.
Ma nessuna legge, oggi, è presente nell’ordinamento per infliggere e comminare una pena giusta alle banche che, come untori autorizzati, disseminano la peste economica, provocando fallimenti ed ingiustizie nel tessuto produttivo.
La peste che si è determinata e quella allegoricamente descritta nel bellissimo romanzo di Josè Saramago, “Cecità”.
Egli la definisce male bianco: immagina un contagio attraverso la cecità (tutti diventeranno ciechi), che colpisce chiunque con il semplice contatto fisico.
Ma ne è chiaro il messaggio morale sotteso: cecità è vivere in un mondo dove non vi sia più speranza, ove la vita è fragile, se la si abbandona.
Così le banche, che senza ottemperare alla precipua funzione di raccogliere il risparmio ed alimentare la ricchezza nel virtuoso processo di solidarietà, lasciano al suo destino cinico e baro l’impresa.
La cecità, come la peste, provoca la distruzione di ogni legame: “siamo fatti per metà di indifferenza e metà di cattiveria; è una vecchia abitudine dell’umanità, passare accanto ai morti e non vederli. Il mondo è pieno di ciechi vivi e lottare è sempre stato una forma di cecità”.
L’umanità diventa bestiale, feroce, incapace di vedere e distinguere le cose razionalmente; si determina, con il propagarsi della immaginaria malattia, la guerra di tutti contro tutti, sino a quando l’uomo diventa lupo per l’altro, homo homini lupus: “non siamo diventati ciechi, secondo me siamo ciechi che pur vedendo, non vedono”.
La peste abbrutisce, annichilisce. Si perde tutto, anche la pelle. Lo ha scritto in un libro Curzio Malaparte: “perdono tutto, sono pronti a vendere qualsiasi cosa pur di sopravvivere – i propri cari, la propria dignità, la propria pelle”.
La pelle è, a conti fatti, l’ultima fragile frontiera fra essere e nulla. È la metafora di quello che resta al fondo delle catastrofi, è “l’ultimo atto nella vicissitudine dei corpi”. È la condizione dei segnalati senza giustizia e senza pace, lasciati annichiliti a se stessi.
Si muova il sistema e si punisca l’untore: la bancocrazia.
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