Storia

Cento anni dopo. Raccontare la guerra, quella avvenuta per davvero

5 Novembre 2018

A festa finita, forse conviene fare un bilancio.

Cento anni dopo, il 4 novembre 2018, ci ritroviamo di nuovo immersi a “bagnomaria” parlare di “vittoria mutilata”. Lo interpreto come una vittoria del mito sulla capacità e la forza di sopportare il racconto di come «come le cose andarono per davvero».

Non che non ci siano gli strumenti, per esempio i film  – tre per tutti: La grande illusione, di Jean Renoir;  Orizzonti di gloria, di Stanley Kubrick; La Grande guerra, di Mario Monicelli – la ricerca storica e ancora meglio le voci letterarie capaci di raccontarla per davvero la Prima guerra mondiale (per esempio: Un anno sull’altipiano  di Emilio Lussu).

Ma quegli strumenti non costituiscono sapere condiviso. Oppure sì, ma è tornata forte la domanda di mito, e la consapevolezza o la certezza dei dati, non ce la fanno a tenergli testa. Comunque la ragione critica è in affanno.

Se questi percorsi oggi risultano disertati, si possono avere due reazioni: la prima pensare che sia una battaglia perduta, che non ne valga la pena. Oppure provare a riprendere in mano le cose e riprovarci.
Personalmente opto per la seconda. Così a saga del centenario finita, provo a riprendere in mano un vecchio libro di Giovanna Procacci (Soldati e prigionieri italiani nella grande guerra, Bollati Boringhieri), che insieme ad altri ha avuto il merito di anni fa di far riaprire il dossier sulla guerra mitizzata.

Il tema è quello dell’Italia come “nazione in armi” per la patria. L’obiettivo è – come il Sisifo di Camus, che di fronte al masso precipitato in fondo, non demorde, ma scende nell’antro e ricomincia daccapo – non darla per vinta al mito.

A lungo il tema della “nazione in ami” è stato il mito che ha accompagnato l’invenzione della tradizione di un’Italia schierata come un sol uomo “per Trento e Trieste”. Se qualcuno avesse dei dubbi sarebbe sufficiente fare una raccolta antologica – e  la cosa non sarebbe un prodotto banalmente compilativo, ma esprimerebbe probabilmente molti lati profondi della retorica nazionale – dei testi delle lapidi che accompagnano la monumentalistica dedicata ai caduti su tutte le piazze italiane, oppure i testi che fanno da supporto all’ elenco dei caduti militari nelle varie anticamere delle sale consiliari di tutti i Comuni italiani, o nelle stazione ferroviarie.

Quei testi in gran parte ripresi sulla grammatica di Redipuglia, dove la quantità soverchiante di aggettivi schiaccia qualsiasi capacità di riflessione critica perché l’obiettivo è stupire e non far riflettere, ci dicono molto di come si è costruita una retorica nazionale, di come fu inventato il mito di un soldato fedele alla patria e pronto a morire per il sacro suolo e una retrovia proletaria e sovversiva refrattaria allo spirito nazionale, partigiana col nemico, in breve disonore per la nazione.

Ma quei testi non ci dicono il vero.

Nel corso della guerra, infatti, tra i comandi militari e la truppa si combatté una lunga guerra di logoramento, dove nessuno aveva fiducia di nessuno: non i comandi dell’esercito perché sostanzialmente convinti di una refrattarietà del soldato all’ ubbidienza. Né da parte della truppa verso gli Alti comandi, perché osservati come un mondo lontano, incapace di comprendere cosa fosse quella guerra, insensibili alle fatiche, alle rinunce, alle morti collettive.

Il libro di Giovanna Procacci ci racconta altre storie. Queste storie sono quelle di un Comando supremo sordo alle trasformazioni della tattica militare, convinto di amministrare vite umane a proprio piacimento, e di una truppa che è costantemente vittima di un sistema di cui non intravede una qualche razionalità.

Ma questi due aspetti costituiscono solo lo scenario introduttivo di una lunga indagine. Il vero nucleo del volume di Giovanna Procacci è, infatti, la condizione dei prigionieri italiani durante la guerra. Una condizione contrassegnata di fatto dall’ abbandono e dal rifiuto del Comando superno di considerare quei militari ancora soldati di collocarli e interpretarli di fatto come traditori perché arresisi al nemico o catturati durante la rotta disastrosa di Caporetto. Una massa di prigionieri che sperimenta in tutto il corso della guerra e, soprattutto nell’ultimo anno dopo Caporetto, la condizione di prigioniero indigente, ma anche di sradicamento rispetto ad ogni sfera di affetto. Una massa nei confronti della quale il Comando supremo mostrerà sempre insensibilità, che di fatto si vorrebbe dimenticare, nei confronti della quale si fa di tutto perché non siano inviati pacchi di indumenti o di viveri, perché sia ostacolata, tanto ne confronti delle famiglie come delle associazioni assistenziali qualsiasi forma di soccorso e di aiuto, di conforto materiale e anche spirituale od emozionale.

Non solo non arriveranno pacchi viveri ai prigionieri italiani per la costante opera di deterrenza e di sabotaggio da parte delle autorità militari italiane preposte al sovraintendimento dei soccorsi ai prigionieri italiani nell’ambito della commissione internazionale di Berna, preposta al soccorso degli internati, cui prendono parte i rappresentanti militari di tutti i paesi belligeranti. Ma anche altri conforti saranno di fatto estremamente rarefatti e sostanzialmente inibiti.

Dietro a un fenomeno che dopo molti anni in altre circostanze e nel corso di un altro conflitto militare, farà gridare al tradimento o all’“onore perduto” – ovvero dietro le scene dell’“Otto settembre” – ci sarebbe da domandarsi se la memoria lunga di una sostanziale insensibilità civile di freddezza e lontananza tra sfere alte dei comandi e truppa (uno degli elementi che si potrebbe dire rendono rarefatto per non dire inconsistente qualsiasi vago progetto di carattere popolare e nazionale dell’esercito) non sia già in questa sostanziale indifferenza alle sorti umane e profonde di centinaia di migliaia di prigionieri italiani abbandonati a se stessi e nei confronti dei quali, come descrive dettagliatamente Giovanna Procacci nel capitolo di chiusura, neppure la fine del conflitto permette che si dia un tranquillo e pacificato “ritorno a casa”.

Quel “tutti a casa” su cui anche Italo Calvino era tornato più volte nella sua prosa civile insistendo sulle pene che il reduce ha nella via tortuosa, aspra e difficile del ritorno “per vie impervie” verso casa, che ha i suoi percorsi narrativi nell’Ulisse omerico o nei disperati ateniesi guidati da Senofonte descritti nella sua Anabasi, non vale invece per questi 600.000 prigionieri italiani della Grande guerra, ancora guardati con sospetto anche all’indomani della fine della guerra,  trascinati in giri a piedi disperati tra Carso e pianura, osservati dagli alti comandi come “venduti al nemico”, incerti dell’ accoglienza che avranno a casa.

E’ una condizione disperata quella che indaga Giovanna Procacci in questo libro e che con pazienza – e forse anche con pietà, quella pietà che non si deve agli “ultimi” ma a coloro che hanno subìto un torto e la grande storia ha deciso che non fossero mai esistiti – emerge da queste pagine. Ma è anche una lezione su come s’indaga sulle psicologie di guerra, non come effetto di una condizione di stress, quale per esempio saremmo indotti da una ricorrente lezione che ci viene proposta dalla psicoanalisi, ma come risultato di una cultura di guerra preesistente all’ evento bellico in sé. Una cultura di guerra che non produce l’evento bellico, ma che presiede a molte dinamiche che poi attraversano e riempiono di senso quell’evento.

Giovanna Procacci calcola che 600.000 furono gli italiani internati, ovvero uno su sette dei soldati formanti l’ esercito operante nel corso dell’ intero conflitto sperimentò la condizione di prigionia. Di questi 100.000 (ovvero uno su sei) non fece ritorno a casa dopo la guerra. Di questi 100.000 italiani il 90% non morì per ferite da combattimento o per i postumi da ferita di trincea, ma morì per fame, freddo e stenti, in una guerra in cui il rispetto per il prigioniero militare era ancora alto e dove era possibile ancora far pervenire cibo indumenti e soccorsi in quantità. Se, nonostante tutto questo, avvenne che molti prigionieri italiani morirono per cause non direttamente legate alla guerra, argomenta Procacci, ciò fu possibile solo per una scelta politica, in cui pesò in forma determinante una ideologia politica e sociale del Comando supremo che riduceva ogni prigioniero a un disertore e dunque riteneva “perduto”, meglio “da perdere” un soldato catturato.

Parafrasando: l’unico soldato buono, alla fine, era solo il soldato morto. Se sfuggiva a questo destino era perché “vigliaccamente” si era sottratto al suo “orizzonte di gloria”.

Questa storia i cantori della “vittoria mutilata” o della grande impresa nazionale, cento anni dopo, non sono ancora pronti ad ascoltarla. Anche per questo vale la pena ripeterla.

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