Storia

Cento anni dopo. Cosa resta di Cesare Battisti e della sua idea di patria

12 Luglio 2016

Riprendere in mano le parole di Cesare Battisti a un secolo esatto dal momento dell’esecuzione della sua condanna a morte fa un certo effetto.

Non è un gesto provocatorio. E’ un modo per provare a misurare il senso di un secolo e di capire dove siamo noi oggi il 12 luglio 2016, cento anni esatti dal giorno dela sua morte,  e se e quanto ci siamo spostati dai temi che erano del suo tempo.

Tra tutti, uno: quello di patria, nel suo vocabolario lontano dal gergo nazionalista e vicino all’ideale mazziniano di “Giovane Europa”. Patria, parola a lungo accantonata e oggi tornata nel vocabolario pubblico.

A un secolo di distanza dall’esecuzione della sua condanna a morte – era il 12 luglio 1916 più o meno a mezzogiorno – “è ancora impossibile staccare Battisti dal «santino» in cui è stato collocato”, ha scritto Paolo Rumiz venerdì 8 luglio su “la Repubblica”.

Del Battisti reale, invece, si continua a sapere poco nonostante la ricerca storica abbia prodotto volumi di grande qualità.  Tutti ne parlano come un traditore o come un martire. Poi alcuni si ricordano che era un socialista, amico di Salvemini; pochissimi sanno che era un geografo con una conoscenza dettagliata (in termini di geografica economica, sociale, di geografia generale) non solo del suo Trentino, ma anche del sistema complicato dell’Impero austro ungarico e che proprio da quella conoscenza delle condizioni economiche, materiali, discendeva la sua idea di patria. Tutti si ricordano del suo passaggio di frontiera (per la precisione il 12 agosto 1914) quando Battisti decide che la patria si sceglie, non è il luogo in cui si nasce e dunque decide di “andare dall’altra parte”.

Cesare Battisti – ha scritto lo storico Mario Isnenghi – è probabilmente una delle personalità più citate e meno conosciute del Novecento nazionale. I ragazzi imparano il suo nome a scuola, le città sono piene di vie intitolate a suo nome, ma la vera fisionomia dell’uomo e del politico non si è più ripresa dalle interessate forzature in senso nazionalistico e persino protofascista cui lo ha lasciato esposto la sua morte precoce”[pp. 36-37].

E’ una descrizione efficace.

Cesare Battisti, specie dopo la morte, non ha mai avuto requie. Continuamente sospeso e conteso tra una parte politica, quella del nazionalismo che lo vuole rappresentante dell’italianità da rivendicare (o per parte austriaca che lo legge come il traditore per antonomasia) e un movimento socialista e democratico che ha sempre avuto incertezze a fare i conti con la sua figura.

Italiano “sbagliato”, per molti fissato nelle immagini della sua condanna a morte e poi del suo corpo, ma soprattutto in quello sorridente del boia che ne constata la morte, un caso che inaugura la pratica contemporanea dell’uso e dell’esposizione del corpo del nemico ucciso, come ha scritto anni fa lo storico Giovanni De Luna, ma anche l’autoaccusa più radicale e senza alibi, l’autoritratto distruttivo più impietoso che un potere può fare a se stesso, come scrive Karl Kraus nel suo Gli ultimi Giorni del’umanità.

Cesare Battisti ha una personalità complessa che si sottrae allo schema di teatro del traditore o dell’eroe nazionale.

La sua è la storia di una scommessa politica che in gran parte perde con la fine della guerra, anche se quei territori per i quali auspica la riunificazione all’Italia, si congiungono all’Italia. La partita infatti per Battisti, non è definita dai confini, ma da un’idea di sviluppo che si persegue. Lì si misura, a guerra finita, la sconfitta della riflessione politica che la sua morte lascia in eredità.

E che ancora ci riguarda, sospesi come siamo tra rivendicazionismi territoriali, orgoglio e una confusa idea di Europa. – Intervenendo a Innsbruck alla dieta del Tirolo il 12 giugno 1914 due settimane prima dell’attentato da Sarajevo e due mesi prima dell’inizio della guerra. afferma:

Io sono antimilitarista per convinzione teorica, per ragioni di principio .  Io vedo nel militarismo l’impedimento allo sviluppo della civiltà industriale, al lavoro fecondo e pacifico (…) Il militarismo, in origine strumento di difesa, va ognor più trasformandosi in strumento di offesa e di parassitismo (…) Che se questa mia fede antimilitarista vale per ogni paese al mondo, vale ancor più in Austria, dove all’esercito manca una qualità fondamentale, che c’è in tutti gli altri paesi. Altrove l’esercito è l’espressione genuina, caratteristica della patria. Ma la patria in Austria non esiste. L’Austria è una bolgia infernale, nella quale le patrie si accavallano l’una sopra l’altra: la più forte contende il terreno alla più piccola e non solo il suolo si contendono, ma anche la libertà, che è pei popoli l’aria da respirare.

La crisi della II Internazionale nell’estate 1914 – un movimento, che crede di essere il soggetto della storia mentre ne è solo l’oggetto, e che meno di due  mesi dopo queste parole  dimostrerà la sua impotenza decidendo il 30 luglio 1914,  di votare contro i crediti di guerra, e dando mandato a tutti i partiti socialisti suoi affliati di opporsi alla guera, salvo vedere tutti i suoi partiti (eccetto quello italiano) votare i crediti di guerra il 3 agosto –  convince Battisti che margini possibili per una riforma non si danno e che una classe politica non è capace di assumersi il compito della trasformazione.

Lì si consolida la convinzione che l’unica strada percorribile sia quella appunto del crollo del sistema imperiale, della ricomposizione nazionale dei singoli attori e poi la lenta costruzione di un’ipotesi politica sovranazionale che testimoni di un processo concordato e collettivo.

Per attuare la federazione degli Stati d’Europa, dice in uno dei suoi discorsi in giro per l’Italia nell’autunno 1914 occorre che ci siano gli Stati. E subito aggiunge:

Ma per Stato non si deve intendere un conglomerato come l’Austria, un caos entro il quale ribollono dieci bandiere, dieci lingue, dieci nazioni, un forzato amalgama in cui si vorrebbe soppresso ogni sentimento di patria e di civiltà per sostituirvi una cieca devozione alla dinastia più esecrata del mondo; per Stato deve intendersi l’unione di quelli che parlano la stessa lingua, che hanno una comune coscienza storica e abitano in un territorio, quant’è più possibile, ben demarcato dai confini naturali. Solo attraverso una tale costituzione degli Stati, arriveremo all’Internazionale. Questa sarà, come diceva Jaurès, una garanzia per l’indipendenza delle nazioni, come nelle nazioni indipendenti l’Internazionale avrà, alla sua volta, i suoi organi più possenti e più nobili.

Il fatto è, tuttavia, che la macchina nazionalistica vince.

In quei mesi lo schema culturale, mentale, l’immaginario nazionalista che diventa egemone quando dice “patria” non si serve delle parole di Cesare Battisti che anzi vede come temibile avversario. Patria da allora si identifica con le parole, i gesti, l’istrionismo di  Gabriele D’Annunzio, il “vate” il primo a trasformare la politica in atto estetico (dopo di lui tutti i grandi dittatori del Novecento batteranno la strada che lui inaugura). E’ significativo, del resto, che nel gergo resistenziale questa parola ritorno, ma alla fine sia destinata a non rimanere.

Dal confronto con Gabriele D’Annunzio Cesare Battisti  esce perdente: troppe parole, troppa riflessione, troppa geografia economica e sociale, una disciplina che in Italia non ha mai avuto grande fortuna se non come geografia politica (un fascino per la geopolitica  che dura ancora oggi a fronte del disinteresse diffuso per la geografica economica, umana, sociale).

Ciò che resta, dunque, per riprendere il discorso iniziale, è il “Santino”.

E tuttavia è bene avere presente che Cesare Battisti non era l’icona in cui la propaganda nazionalista lo “ha rinchiuso” o ha voluto “segregare”.

La sua riflessione politica era più complicata e inquieta. Un secolo dopo siamo ancora lì, non senza affanno, a tentare di riprendere in mano quel filo interrotto.

 

 

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