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Buccini: “Periferie vittime della sinistra vile e della destra irresponsabile”

24 Maggio 2022

Continua il nostro percorso sui protagonisti del giornalismo Italiano, questa è la volta di Goffredo Buccini storico inviato e poi editorialista del Corriere della Sera dove milita dal 1989. È stato uno del pool dei cronisti di Tangentopoli su cui ha scritto “Il tempo delle mani pulite” una perfetta ricostruzione di quella triste pagina italiana raccontata dall’osservatorio dei giornalisti che, insieme a lui, ne facevano parte.
Qui ripercorriamo il suo percorso senza tralasciare aneddoti e ricordi raccontando gli incontri con i personaggi e gli avvenimenti che hanno segnato la sua carriera.
Lo incontro a Roma nella sede romana del Corriere, una persona innamorata della sua professione che mostra una disponibilità non affatto scontata. L’intervista è un po’ lunga ma vale la pena leggerla perché ripercorre un pezzo di storia del giornalismo italiano.

Iniziamo sempre le interviste ai giornalisti con una domanda sugli inizi della loro carriera, quindi chiediamo anche a lei, quando e perché ha deciso di diventare giornalista?

Ho deciso di diventare giornalista intorno ai 15-16 anni, con l’idea di cambiare il mondo, ero affascinato da Hemingway, giornalista e combattente insieme, evidentemente ero fuori strada, però continuo a pensare ancora che sia il miglior mestiere del mondo.

Ha lavorato per diverse testate: Il Mattino, La Notte, Il Giornale, La Repubblica e il Corriere della Sera per il quale è stato inviato dal 1994, dal 1999 negli Stati Uniti, dal 2004 al 2009 capo dell’edizione romana e ora editorialista dello stesso Corriere, ci racconta la sua esperienza?

Io sono di famiglia napoletana e ho cominciato a fare il giornalista abusivo a Il Mattino, fortunatamente ho scoperto in tempo che esisteva una scuola di giornalismo a Milano, nella metà degli anni ’80 era la prima scuola nata in Italia, con me c’era anche Peter Gomez. Su 400 candidati, ne potevano passare solo 40. Io e Peter siamo risultati primi a pari merito. La scuola milanese mi ha salvato da un destino di abusivo che sarebbe potuto durare… oltre 30 anni, sono quindi molto riconoscente alla scuola e alla città di Milano. Da lì finii a La Notte, un giornale di cronaca combattente che usciva di pomeriggio, prima che le televisioni all news ammazzassero i giornali pomeridiani.  Andavi per strada, in pianura padana, a cercare il morto, la foto del morto, se riesci ad ottenere la foto del morto alle 6 del mattino, dalla mamma a cui hanno ucciso il figlio, credo che tu sia in grado di fare qualsiasi cosa, tutto il resto poi è una passeggiata. Direi una scuola e un’esperienza straordinaria. Da La Notte a Il Giornale a servizio dal grande maestro e galantuomo che fu Indro Montanelli, dal quale ho avuto l’onore di essere assunto, per un periodo breve a Repubblica, poi al Corriere della Sera alla fine del 1989. Dopo tre anni che ero alla giudiziaria scoppiò il caso di Mani Pulite e da lì diventai inviato. Voglio raccontarle un aneddoto che si trova anche nel libro “il tempo delle mani pulite” e parla di Ettore Botti, il capo cronista che mi ha assunto al Corriere della Sera, un uomo di una rettitudine e di una eticità straordinaria, era un grande capo, uno di quei rari capi che ti difendono senza fartelo sapere, cosa ancora più rara. A quel tempo quando stavamo al Palazzo di Giustizia, tornavamo in redazione alle 19-19.30 per scrivere il pezzo, che spesso era composto da pagine zeppe di provvedimenti, avvisi di garanzia. Dovevamo porre molta attenzione, perché era possibile sbagliare e causare un grosso guaio. Una sera non c’era il mio collega di allora, Michele Brambilla, scrissi da solo due pagine di inchiesta e chiusi il lavoro alle 23.15. Il giorno dopo vidi sulla posta interna un messaggio di un capo redattore centrale, addetto alle chiusure del giornale. “Caro Goffredo, ti ho sempre stimato, non mi verrebbe mai in mente di dire nulla contro di te, un abbraccio”. Non capivo il perché di questo messaggio e i colleghi mi spiegarono che la mattina dopo, durante la riunione di redazione, il capo redattore sulle chiusure disse semplicemente che la pagina 5 si era chiusa più tardi perché io avevo finito tardi, Ettore si alzò in piedi prendendo le mie difese, inveendo contro il capo redattore, questo senza che io ne sapessi nulla. Se non avessi ricevuto il messaggio sicuramente non l’avrei mai saputo, molti altri capi invece mi avrebbero avvisato, magari per vantare poi un credito nei miei confronti, ecco in questa storia c’è tutto Ettore Botti.

La notizia che avrebbe voluto scrivere lei per primo, ma invece l’ha letta sul giornale scritta da qualcun altro?

Oddio tante, ho preso tantissimi buchi nella mia vita da cronista. Ce n’è uno in particolare, accaduto all’epoca di Mani Pulite che dà il senso di come fossero i primi mesi dell’inchiesta. Nei primi mesi, da febbraio ad aprile del 1992, dopo l’arresto di Chiesa. Eravamo tutti convinti che il presidente del Pio Albergo Trivulzio non avrebbe parlato. C’era grande concorrenza tra i giornali in quei primi due mesi (poi nacque il pool dei cronisti). Ci si massacrava per raccontare che magari Di Pietro aveva trovato un conto in Svizzera, una prova bancaria in più. Una sera, a mezzanotte Repubblica, nella rassegna stampa, esce con la notizia del ritrovamento di un secondo conto corrente svizzero, intestato a Mario Chiesa. Mi venne un colpo, chiamai Di Pietro, che mi farfugliò (probabilmente stava già dormendo) che la notizia non era vera, cercava di tenere tutti noi giornalisti tranquilli, aveva paura che l’inchiesta gli si chiudesse addosso. Purtroppo la notizia era vera. La strategia di Di Pietro era quella di dare un pezzetto di notizia a ciascuno, piccole cose, a volte anche fuffa, solo per tenere alta l’attenzione sull’inchiesta. Il timore era che la stessa finisse come erano finite tutte quelle prima di Mani Pulite. Di Pietro smise di manovrare noi giornalisti quando i cronisti decisero di lavorare insieme per un anno.

Tra voi giornalisti c’era l’abitudine di lavorare in coppia, anche tra colleghi di testate diverse. Ai tempi dell’indagine “Duomo Connection” che vedeva coinvolti l’allora Assessore Schemmari e il Sindaco Pillitteri, Peter Gomez, suo collega a quei tempi in forza al Giornale di Montanelli, l’accusa di aver ricevuto un “buco” proprio da lei, considerato un fratello. Ci racconta la sua versione e il rapporto con Peter?

Che Peter fosse un fratello è assolutamente vero, abbiamo condiviso molte esperienze, ci siamo divisi il sonno, è un collega che mi è stato molto vicino anche nel privato. Per quanto riguarda il buco penso si riferisse alla vicenda Berlusconi, ma siamo già al 1994, all’invito a comparire mandato dal pool dei magistrati all’allora presidente del Consiglio. Insieme abbiamo seguito l’inchiesta della “Duomo Connection” io per il Corriere della Sera, lui per Il Giornale, contro Repubblica per la quale lavoravano Piero Colaprico e Luca Fazzo, due eccellenti cronisti. Fu un anno pazzesco, lavoravamo fino a notte fonda cercando di dare buchi ai colleghi avversari, loro erano parecchio più avanti di noi sui verbali, ma io e Peter non mollavamo. Peter era un grande ricercatore di verbali, pubblicammo poi insieme il nostro primo libro dal titolo “O mia bedda Madonnina” per Rizzoli nel 1993. Raccontava la storia della penetrazione della mafia a Milano nei 20 anni precedenti e devo dire, con orgoglio, che per il libro, frutto del lavoro di due anni, non subimmo neppure una querela. Era pieno di appoggi giudiziari, avevamo tonnellate di carte, nessuno ci avrebbe potuto querelare, addirittura alcuni mafiosi arrestati anni dopo, custodivano il libro sul comodino, era diventato un testo per gli uomini d’onore che volevano conoscere la loro stessa storia. Quindi per Peter grandissimo affetto. In merito al buco sul caso di Berlusconi nel 1994 è vero sono stato un infame, ma nel nostro mestiere affiora talvolta un po’ di infamia… (Buccini ride, ndr)

Ne “Il tempo delle mani pulite” uscito di recente, racconta la vicenda in cui lei e Sallusti partiste per Santo Domingo, agli ordini di Paolo Mieli, allora Direttore del Corriere della Sera, alla ricerca di Giovanni Manzi, l’ex presidente degli aeroporti milanesi, uno dei grandi elemosinieri di Bettino Craxi. Ci spiega com’è andata oltre al suo rapporto con Alessandro Sallusti?

Questa storia probabilmente rappresenta la migliore cosa giornalistica che ho fatto in tutta la mia vita. Si tratta di un’inchiesta allo stato puro, ero ancora in cronaca, Sallusti era passato all’ufficio centrale, arrivò dalla cronaca di Milano una dritta da parte di Solazzo, mitico vecchio cronista giudiziario del Corriere della Sera. Conosceva tutto: il Palazzo i cancellieri i giudici, era uno in grado di dare tre buchi al giorno agli altri giornali, venne al Corriere quando c’era anche Botti. Vorrei che Ettore venisse ricordato in quanto fu il vero grande artefice, il nostro grandissimo capo cronista di allora, della migliore cronaca di Milano di quegli anni. Solazzo gli disse che girava voce che Manzi fosse transitato da Santo Domingo. Manzi era uno dei grandi elemosinieri di Bettino Craxi, allora Presidente della SEA società degli aeroporti milanesi. 30 anni fa i giornali spendevano molto, la pubblicità rendeva, pensi che con una sola pagina pubblicitaria si pagavano gli stipendi di molti giornalisti, per cui era facile mandare in giro gli inviati. Ettore Botti mi chiamò e l’allora direttore Paolo Mieli chiamò Sallusti, il compito era quello di trovare una prova, non contraffatta, che attestasse il passaggio di Manzi da Santo Domingo. Non era necessario trovare lui, ma era sufficiente una ricevuta, una foto, insomma qualcosa di attendibile, che non fosse una bufala, perché com’è noto a Santo Domingo erano in grado di fabbricare a tavolino qualsiasi cosa. Partii con Sallusti, con le foto di Manzi e un bel po’ di dollari in tasca. Arrivati a Santo Domingo non sapevamo proprio dove andare, navigavamo nel buio, io mi recai dal principale giornale della capitale e Alessandro andò all’Ambasciata. Ci ritrovammo alla sera con due dritte coincidenti: dove va un italiano con i soldi che vuole stare tranquillo? A Casa de Campo, un resort, ad un’ora e mezza dalla capitale. Alessandro ebbe un lampo di genio, tutto si può dire di lui, persino che sia un personaggio anche controverso, ma è geniale, è sul campo uno dei migliori giornalisti con cui io abbia mai lavorato. Quando i giornalisti vanno all’estero prendono uno stringer, un collega del posto che ti traduce, non solo i giornali, ma il posto stesso, ti accompagna e ti aiuta a capire. Sallusti ebbe la brillante idea di assumere come stringer due prostitute di Santo Domingo, che parlassero italiano, l’unica prestazione richiesta era quella di farci da stringer, delle giornaliste aggiunte. Questa è stata la chiave di volta della vicenda, io e lui andammo in giro per una settimana con queste due ragazze motivatissime, delle ottime croniste, tenevano moltissimo a trovare questo tipo italiano che loro avevano soprannominato “El Ladron”. Bussammo a 200/300 ville con loro che compulsavano maggiordomi, giardinieri, con la foto di Manzi e una “mancia” allegata. Per loro era tutto facile essendo del posto, noi da soli avremmo avuto invece enormi difficoltà ad entrare in confidenza con le persone locali. Alla fine troviamo Manzi, lo intervistiamo e per effetto della nostra intervista Manzi viene arrestato e rimpatriato, il Corriere diede naturalmente la notizia in prima pagina e occupò anche la seconda e la terza. A mio avviso è stata l’operazione più pulita e più bella che io abbia fatto nella mia vita, anche per questo voglio molto bene ad Alessandro. Il nostro rapporto si è un po’ perso, lui a mio avviso ha rincorso una serie di cose che non conosceva direttamente, cominciando a raccontare cose, che lui naturalmente suppone siano vere, su come finì la storia sull’avviso di garanzia a Berlusconi, ognuno poi prende la propria strada, per me resta un grande collega al quale auguro le migliori fortune.

Quasi tutti i giornalisti che abbiamo intervistato fino a ora e che hanno iniziato la loro carriera negli anni ’80 ci raccontano quanto fosse meraviglioso fare il giornalista in quegli anni: si era spesso in viaggio, gli stipendi erano alti e si incontravano tantissimi personaggi. Oggi i giornalisti stanno quasi sempre in redazione e gli stipendi non sono quelli di una volta. Cosa è cambiato secondo lei? Quale consiglio darebbe a un giovane che vuole avvicinarsi a questa professione?

Il cambiamento fondamentale è che negli anni 80 le persone da lei intervistate avevano 20-30 anni e oggi ne hanno 50-60. Quando a 20 anni iniziai a fare il mestiere, c’erano i giornalisti che avevano la mia età di oggi che mi dicevano: “ma cosa fai, questo è un mestiere finito”. Quando arrivai al Palazzo di Giustizia i “vecchi” della giudiziaria mi dicevano la stessa cosa, poi dopo tre anni scoppiò il caso Mani Pulite. Cosa voglio dire? che il giornalismo non morirà mai. Esiste solo un’ipotesi, per la quale il giornalismo potrebbe finire: la fine della democrazia. Finche c’è democrazia in un Paese, c’è bisogno del giornalismo, il giornalismo potrà cambiare faccia, potrà cambiare modo di fare, probabilmente avrà meno soldi, già noi ne avevamo meno rispetto alla precedente generazione, ma non potrà mai finire. Ho una figlia giornalista che ha 32 anni, lavora per la tv ed ha lo stesso entusiasmo che avevo io. È, lo è stata e continuerà a essere la professione più bella del mondo.

Com’è cambiato il ruolo della magistratura dall’epoca di Mani Pulite ad oggi? Hanno ragione Sallusti e Palamara quando raccontano nei due libri “Il sistema” e “Lobby &Logge” che, a prescindere dallo scandalo Palamara, il sistema esiste e continua ad esistere?

Hanno assolutamente ragione e aggiungo che la magistratura è cambiata in peggio ed è anche facile da comprendere. L’inchiesta di Mani Pulite ha sancito la morte della politica che era già in atto, gli stessi partiti si stavano già suicidando da tempo a colpi di furti, di non essere credibili per i cittadini, l’inchiesta ha semplicemente svolto il compito di becchino di una politica già suicida. Le culture politiche sono scomparse e non si sono più riproposte nel nostro Paese e siccome gli spazi vuoti non esistono, la magistratura ha occupato lo spazio lasciato vuoto dalla politica. Questo ha prodotto la politicizzazione della magistratura e la politica a sua volta è diventata giudiziaria, questo è stato il danno, questo ha corrotto le toghe, ha ampiamente fatto si che le toghe assumessero i difetti della politica che loro stesse avevano contribuito a seppellire. Hanno ragione quindi Sallusti e Palamara. Fa un po’ specie però che un personaggio, davvero discutibile come Palamara, si erga a metro della vicenda. Mi fa sorridere, solo in un Paese come il nostro possono accadere cose simili, in un altro Paese scomparirebbe dalla scena pubblica, finirebbe dignitosamente in un luogo tipo la nostra campagna umbra a leggere libri e a pensare ai suoi figli e ai suoi nipoti. È vero però che il Sistema esiste, è più che mai vivo e va via via peggiorando, la Magistratura non riesce a liberarsi del Sistema che si è impossessato della magistratura stessa. A questo punto sono possibili solo due soluzioni, la prima è che la magistratura faccia un passo indietro spontaneamente, la soluzione sta, a mio avviso, nello scioglimento delle correnti. Non è possibile che io sappia prima se il giudice che mi dovrà giudicare sia di sinistra o di destra, questo mina duramente la credibilità della magistratura, che infatti sta precipitando. La seconda soluzione è che la politica smetta di chiedere alla magistratura la legittimazione per la propria esistenza. Una politica vigliacca e debole da molti anni ha sempre bussato alle porte dei magistrati, chiedendone la supplenza. I magistrati in fondo hanno fatto quello che la politica ha chiesto loro di fare, dite ai cittadini che siamo buoni e giusti. Questa cosa è assurda. La cultura politica non è fatta solamente di un programma sulla giustizia, ma di una serie di idee che compongono la visione su ambiente, tasse, il digitale la crescita del sud, l’Europa, insomma un partito politico si proponga di creare dei programmi organici, comprensibili, coerenti da lanciare ai propri cittadini. Nel momento in cui il partito politico viene legittimato in questo modo e non per via giudiziaria, potrà a quel punto recarsi dalle toghe chiedendo loro di rientrare nell’alveo delle loro funzioni e delle loro competenze, a quel punto la smetteremo di avere i procuratori che si occupano della politica giudiziaria italiana, il recente sciopero delle toghe è l’ultimo triste capitolo.

Considera la riforma Cartabia un buon inizio?

È l’unico inizio possibile, anche se purtroppo molto debole, del resto ha origine da un Governo con una maggioranza talmente ampia che non sempre rende le cose semplici. L’ottima Cartabia ha fatto ciò che poteva, credo però che ci sia ancora molto da fare, credo fortemente nella netta separazione tra pubblico ministero e giudice, la separazione delle carriere va fatta a monte, senza passaggi intermedi, i referendum sarebbero stati una buona cosa, ma ho forti dubbi che vengano celebrati. Non raggiungeranno il quorum, non ne parla più nessuno, è vero che la guerra ha monopolizzato la comunicazione in questo periodo, però si parla anche di altro, ma non di questi referendum, che in parte potrebbero essere eliminati per via legislativa, in quanto alcuni di questi verranno scavalcati dalla riforma che, ribadisco, è peraltro insufficiente.

Nel suo libro “Ghetti” racconta le periferie italiane, terreno di scontro fra ultimi e penultimi, secondo lei quanto la gentrificazione, invece di un’accurata riqualificazione, contribuisce a questo problema? Come si accentuerà il fenomeno in seguito a pandemia e guerra in Ucraina?

Il confine tra gentrificazione e riqualificazione è molto labile, se in una realtà territoriale arrivano brand, grandi marchi, firme prestigiose e tutto questo attira persone borghesi, è vero che stiamo gentrificando questo quartiere, ma lo stiamo contemporaneamente riqualificando. Prendiamo ad esempio New York dove un quartiere come Harlem, dal tempo di Giuliani è diventato sicuramente più vivibile, oppure nella stessa Milano il vecchio luna park che si chiamava “le Varesine” è diventato uno dei luoghi più belli della città, è stato gentrificato? È stato riqualificato? È stato entrambe le cose? Penso che la politica si debba occupare degli ultimi che abitano dentro queste periferie di degrado, senza far finta che il problema non esista e senza oltremodo tentare di cavalcarlo. Negli anni ’10 le periferie hanno incrociato una violentissima crisi economica, prima di questa ci fu quella del 2008 che si è scaricata sulle società occidentali più deboli, sul nostro Paese, sulle parti più deboli cioè sulle periferie. Ha poi incrociato la crisi migratoria, che ha messo a nudo l’inadeguatezza dell’accoglienza, tutto questo ha prodotto nelle periferie un mix esplosivo che non è stato affrontato dalla politica. È stato ignorato e rimosso dalla sinistra, in Italia abbiamo la sinistra più vile dell’occidente, dall’altra parte è stato strumentalizzato dalla destra più irresponsabile dell’occidente, che è quella che abbiamo in Italia, ciò ha portato le periferie ad essere totalmente fuori controllo. Penso che oggi il privato in questi luoghi possa fare molto, la sponsorizzazione può fare molto, non tutto può avvenire per mano pubblica, il tutto però deve stare dentro un alveo che il pubblico possa programmare. Si stava cercando di rispondere in seguito alla pandemia con le risorse previste dal PNRR, dove era previsto un programma di intervento serio al sud e nelle periferie, la guerra ha devastato tutto, è probabile, che sia necessario un altro PNRR o che vada rivisto il primo.

Qual è il suo parere in merito ad alcuni talk show, dove il confine fra informazione è spettacolo è molto labile?

Si può tranquillamente cambiare canale, io sono contro ogni forma di censura, sono assolutamente contrario al fatto che intervenga lo Stato attraverso il Copasir o chi per lui di fronte a presenze demenziali, non faccio nomi, ma ci sono veramente presenze demenziali che partecipano ai nostri talk show, squilibrati che raccontano il falso in maniera evidente, però penso che come un lettore, se vuole punire un giornale, può farlo fallire non comprandolo, non serve censurarlo, allo stesso modo, se una trasmissione ci fa schifo, sarà sufficiente cambiare canale e probabilmente  la stessa trasmissione finirà.

Quali sono stati e quali sono i suoi maestri

Indro Montanelli è stato il più grande tra i miei maestri, poi Ettore Botti il capo cronista che mi ha insegnato tantissimo, il mio direttore Paolo Mieli che per me resterà il mio direttore in eterno, mi ha insegnato a capire la politica e a superare parte della mia ingenuità cronica.

Quale futuro vede per il giornalismo?

Sperando che l’Italia resti per sempre un Paese saldamente democratico, penso che il giornalismo continuerà ad essere il modo con cui i cittadini, gli elettori, potranno capire chi punire o chi premiare alle elezioni. Le faccio un esempio di scuola: la regola delle 5 doppie W (chi, come, dove, quando e perché, in inglese) nacque per l’invenzione del telegrafo, siccome la linea telefonica spesso cadeva, i corrispondenti erano costretti a dire subito le cose importanti, perché esisteva la concreta possibilità che la comunicazione si interrompesse, compromettendo l’uscita del pezzo. Il modo di fare giornalismo cambia a seconda delle tecnologie che si hanno a disposizione. È evidente che le tecnologie che abbiamo oggi, cambino il giornalismo. I social fanno sì che non sia più possibile vincere la gara sulla velocità, se in questo momento un pazzo entrasse in questo ufficio e ci sparasse, prima che il Corriere dia la notizia (e ci troviamo nella sede romana del Corriere), la stessa sarebbe già circolata in rete. Lo stesso giornale dove è accaduto il fatto non riuscirebbe ad arrivare in tempo, è il paradosso. Tutto questo si può contrastare solamente con l’analisi e con la qualità, cioè il Corriere dovrebbe essere in grado di spiegare bene chi sono le vittime, chi siamo io e lei, perché ci hanno sparato, che significato ha la stanza dove ci hanno sparato, chi è lo sparatore, quanto è facile l’accesso alle armi in Italia… Insomma fornire al lettore degli elementi di analisi e di giudizio che non stanno nella notizia nuda e cruda, questa è l’evoluzione del giornalismo oggi: dare al lettore una profondità che i social non hanno.

È mai stato censurato da un capo o da un direttore? Quando e perché?

Non mi è mai capitato, anche perché ho avuto la fortuna di lavorare al Corriere della Sera da quando avevo 28 anni, che è un giornale libero, ma anche negli altri giornali dove sono stato assunto direi che non è mai successo.

Qual è stata, nel tempo, la sua percezione della presenza degli azionisti nei giornali nei quali ha lavorato? È capitato che siano stati “troppo” presenti?

Al Corriere nel tempo sono cambiati gli azionisti ma è sempre valsa la regola che è il direttore che fa il giornale e detta la linea editoriale. Quando ero a capo dell’edizione romana ci fu qualche politico romano che tentò di influenzarmi, uno persino di minacciarmi, ma avendo alle mie spalle il giornale la cosa per loro non funzionò. Avere un giornale forte, e per essere forte deve vendere molte copie, avere conti sani per non dover elemosinare aiuti, è la migliore garanzia per l’indipendenza del giornalista e dello stesso giornale.

 

 

 

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