Storia
Berlinguer ti voglio bene?
Si può fare un film a-ideologico su un uomo politico che ha incarnato invece una precisa ideologia? Si se ti chiami Walter Veltroni. Dopo aver visto il suo documentario su Berlinguer («Quando c’era Berlinguer» ieri sera, su Rai 3), i quesiti sul politico (non sull’uomo che ci interessano meno) restano insoluti. Veltroni, che ha dichiarato di non essere mai stato comunista (cioè un’affermazione falsa o inverificabile), ha compiuto una operazione dolciastra e insincera, felpata ed elusiva, com’è il suo stile. Ha optato per la trattazione mediatica di un mito con musichette americane in sottofondo, non per la sua verifica storica, atteso che son passati già 31 anni dalla sua morte e tutto intorno a noi è cambiato. Non l’uomo politico quindi, ma il mito, com’è interiorizzato tuttora da vaste schiere di orfani già comunisti e oggi in difficoltà nel Pd non abbastanza “di sinistra”. Nessun interrogativo di fondo posto brutalmente sul partito che era diverso ma che era uguale per dirla con Moretti. Nessun microfono offerto alla voce di storici non allineati e non pregiudizialmente avversi come Sergio Luzzatto o di critici come Silvio Pons o di chi semplicemente ha letto e interiorizzato il “Dimenticare Berlinguer” di Miriam Mafai: non una bieca destrorsa, ma la moglie intelligente, impaziente e coraggiosa di un leader glorioso del PCI, Giancarlo Pajetta.
In sostanza la domanda ferale è stata elusa: questo PCI di Berlinguer era o non era comunista? O era già come Veltroni, comunista ma anche liberale? Ossia inseguiva o no un’idea totalmente alternativa a quella capitalistica? Ed era praticabile questa idea nell’Occidente della società affluente, nell’Italia atlantica? E quali idee progettava il PCI sulla democrazia e sul mercato nella società futura? Quale idea di Ordine nuovo inseguiva? Nessuna risposta: dissolvenze ed effetto flou a piene mani e musichette e interviste su una balconata romana con sullo sfondo la grande bellezza del profilo di una basilica cattolica romana…e dulcis in fundo il pianterello di Napolitano che tutto aveva capito invece, ma che ribadisce, felpato e criptico come sempre, il suo “non possumus” come qualsiasi papa del comunismo di allora.
Ma un piccolissimo frame al volo nel filmato oleografico scappa: Olof Palme che dice a Berlinguer di fare chiarezza sulle basi teoriche del marxismo. La parolina non viene mai proferita, ma l’allusione alla Bad Godesberg è palese, cioè quella abiura dal marxismo-leninismo che i socialismi europei avevano fatto negli anni ‘50. Risposta: blowing in the wind, tutto sfuma nel frame successivo. Monsignor Bettazzi, l’ambasciatore Gardner, il vecchio e cadente Ingrao, un incartapecorito Scalfari. Nessuna parola netta o argomentata sulle decine di anni persi tra terze vie e compromesso storico, tergiversazioni e traccheggiamenti estenuanti: “l’esaurirsi della spinta propulsiva dell’Ottobre”, il “sentirsi più sicuri sotto l’ombrello della Nato”, l’eurocomunismo, ossia il rilancio dell’Idea sotto altre spoglie, equilibrismi vari e pencolanti piuttosto che imboccare coraggiosamente l’abbandono dell’Idea utopica e soteriologica: quel comunismo che voleva sconvolgere non solo il sistema economico, ma rigenerare la stessa storia (palingenesi) e la pianta uomo in sé e per sé, l’agognato nuovo umanesimo che però già dai tempi di Mandeville si sapeva impossibile o se possibile disastroso: un alveare virtuoso, ahimè, non fa miele.
Ma quell’Idea era il “credo” niceano sul quale poggiava la fede comunista di massa, e non c’era alle viste nessun eresiarca in grado di imporre la revisione profonda del sigillo della fede. Ci aveva provato in verità, dopo decenni di ricerca teorica, Lucio Colletti, qualcuno come Luciano Pellicani aveva tentato varianti con il recupero di Proudhon: seguì silenzio e accigliato accanimento da parte del PCI e Berlinguer sull’Idea, ormai stramorta e tenuta imbalsamata come il cadavere di Lenin. Si affermerà: ma se l’ avesse fatta quell’abiura del marxismo-leninismo ne sarebbe seguita una Pompei ideologica, il crollo di tutto. E le masse popolari sarebbero scappate in ogni dove. È vero, ma non era meglio farla prima, in maniera chiara e intellettualmente onesta, piuttosto che sotto i calcinacci del crollo del muro di Berlino come la fece Occhetto, quasi di frodo, a tal punto da essersi consegnato alla “damnatio memoriae” di chi poi, però, continuò a incassare i benefici pubblici dell’Idea restaurata, che di lì a poco avrebbe subìto operazioni chirurgiche come in una crudele Casablanca dello spirito ? E abbracciare il riformismo dove lo aveva lasciato Turati? Perché non lo fece? Perché c’era l’URSS che pagava (farsi finanziare da stato estero è questione morale come prendere tangenti) e teneva così in piedi un apparato gigantesco e prigioniero il partito, o perché ciò avrebbe costituito la resa definitiva a Craxi, che quella via l’aveva decisamente e spregiudicatamente imboccata?
Veltroni elude ogni domanda. Ricostruisce tutto come un sonnambulo o come un ricordo personale (saltella all’improvviso dal filmato un “eravamo lì io e mia moglie”) . Lo stesso scontro con Craxi è ridotto solo alle connotazioni televisive del congresso di Verona e della crudeltà ferina del Cinghialone. E infine, lo strazio dell’agonia dell’uomo cui non è stato sottratto un solo frame nell’idea registica di fondo di darci una Passione di tipo religioso. Ma sì, era un brav’uomo, ma era davvero l’uomo bravo che necessitava ad una sinistra laica e finalmente riformista, era quell’uomo bravo di cui aveva disperatamente bisogno la storia del Paese?
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