Storia
Autonomia regionale siciliana, riflessioni su un quasi fallimento
«Per pensare il futuro della Sicilia occorre rifiutare il presente», con questa frase il filosofo Pietro Barcellona, concludeva il suo intervento al convegno Cepes del 1984 su “La crisi dell’Autonomia siciliana”, argomento non da oggi all’ordine del giorno. Proprio nell’anno in cui si chiude la XVI legislatura dell’Assemblea regionale siciliana quel richiamo, alla necessità di ripartire da zero per costruire una istituzione utile a costruire un futuro per la nostra terra, pur così radicale, ci appare di problematica attualità. Infatti, bisogna pur prendere atto che così non si può andare avanti; che il baratro, nel quale sta precipitando l’isola, può essere anche evitato a condizione di cambiare radicalmente prospettiva e regole anche per quanto riguarda l’Autonomia.
È chiaro, però, che questi cambiamenti si potranno realizzare solo avendo consapevolezza di quali sono state le criticità, di quali sono state le patologie che, in questi settant’anni di autonomia, hanno portato al collasso, cominciando col chiedersi se il problema non stia “nel manico”. Chiedersi, cioè, se la crisi non sia il frutto di uno strumento sbagliato, mi riferisco all’Autonomia speciale, per cui avrebbero ragione quanti chiedono, a gran voce il ridimensionamento o, addirittura, l’abolizione dello Statuto regionale siciliano.
Certamente, sarebbe scorretto non riconoscerlo, lo Statuto del ’46 – “un modesto prodotto giuridico” come lo definiva lo storico Giarrizzo – ha le sue “colpe” e non prendere atto che si tratta di uno strumento imperfetto è altrettanto sbagliato. È evidente, infatti, che in esso manca sia l’idea che il progetto per cui difficilmente potremmo trovare una risposta alla domanda di fondo su cosa sia la Regione e quale missione alla stessa si debba assegnare. Mancanze significative che non potevano essere compensate dalla struttura organizzativa, in esso ben marcata, che allora soddisfaceva la pretesa di velleitaria di avere dato vita ad un’istituzione che ripeteva, in sedicesimo, la struttura statuale: la creazione di uno Stato nello Stato.
Ma attribuire tutte le colpe allo Statuto – che, lo affermiamo a gran voce, deve essere profondamente rivisitato tenendo conto anche delle grandi novità politico istituzionali soprattutto degli ultimi trent’anni – finisce per non farci comprendere che cosa non abbia realmente funzionato. Inoltre, addossare tutte le colpe alla Autonomia potrebbe risolversi in un modo semplicistico per assolvere invece il ceto politico che ha avuto la responsabilità del governo dell’isola ed al quale, nella stragrande parte dei casi, a nostro giudizio, si debbono imputare le colpe del disastro.
Autonomia e Statuto sono infatti strumenti neutri la cui qualificazione, in termini positivi o negativi, è evidente che dipende in ogni caso da quelli che ne hanno fatto nel passato e ne fanno, ancora oggi, uso. Mi pare illuminante ricordare, a questo proposito, un lucido richiamo di don Luigi Sturzo, che già al momento del varo dello Statuto metteva in guardia chi fideisticamente immaginava che l’Autonomia, da sola, fosse sufficiente per far “compiere il prodigio di salvare l’avvenire della Sicilia”; il futuro per Sturzo stava, invece, tutto nella qualità e nella responsabilità delle classi dirigenti che la Sicilia si sarebbe data.
A nostro giudizio, quella che Machiavelli chiamava “cattiva politica”, non è stata dunque figlia dell’Autonomia in sé e per sé, lo scriviamo assumendocene le relative responsabilità, ma effetto delle scelte operate da ceti politici troppo spesso non all’altezza del compito ma, e perché no ?, anche di una società civile isolana che si è mostrata poco accorta e, in qualche caso, compiacente facendosi, in questo modo, addirittura, complice di quanto si consumava in danno dell’isola e delle sue istituzioni.
Per rendersi conto di questo incontestabile assunto, è sufficiente dare uno sguardo retrospettivo alla storia dell’Autonomia per capire che ha pur funzionato allorquando vi sono stati protagonisti all’altezza del compito e, al contempo, una società civile capace di pungolare positivamente i propri rappresentanti. E, per non cadere nel generico ed offrire invece qualche esempio concreto di questo assunto ricordiamo, in positivo, i cambiamenti sostanziali della struttura socio-economica della Sicilia di cui l’Autonomia regionale – e quello Statuto che ne sta a fondamento – si è fatta promotrice.
Ci riferiamo al primo tempo dell’Autonomia, alla riforma agraria degli anni cinquanta che, nonostante alcuni non indifferenti limiti, ha segnato una svolta epocale per l’isola sanzionando, da un lato, la conclusione positiva di quel “lungo attacco al latifondo”, come definiva Tino Vittorio le lotte contadine per soddisfare la fame di terra, e cancellando un assetto agrario di “oppressione e miseria”.
Quella riforma, forse al di là delle intenzioni degli stessi promotori, costituì un eccezionale strumento di mobilità sociale tale da cambiare il volto della Sicilia è, forse, il portato più significativo di un’Autonomia che Nicola Cipolla considerava “luogo dello scontro, delle mediazioni e delle decisioni”.
Per non parlare, poi, della felice stagione della settima e ottava legislatura – per essere chiari quella della “Regione delle carte in regola” nel contesto della formula della “solidarietà autonomistica” che vide protagonisti come Piersanti Mattarella, Angelo Bonfiglio, Rosario Nicoletti, Nicola Capria o Pancrazio De Pasquale, e insieme a loro molti altri – che non solo ha operato un notevole rinnovamento legislativo adottando normative perfino pioneristiche, ma che ha ridato spinta e slancio alla società siciliana la quale si è sentita tutta coinvolta in un progetto alto e in un processo di rinnovamento credibile. Nei due esempi che abbiamo fatto, ma se ne potrebbero aggiungere altri, nonostante i segnalati limiti della normativa statutaria, l’Autonomia ha costituito realmente un’opportunità Sicilia.
È evidente, dunque, che l’Autonomia non si dimostrata strumento utile per la Sicilia solo quando il ceto politico si è rivelato incompetente, superficiale e carente di quel passo lungo fondamentale per chi assume responsabilità così impegnative. Ed anche qui, per essere concreti, non possiamo che soffermarci su quanto è avvenuto in questi ultimi quindici anni, marcati dalla modifica statutaria che ha introdotto anche in Sicilia l’elezione diretta del Presidente della Regione. È stato, infatti, questo il tempo in cui le tante patologie del sistema regionale si sono cronicizzate, in cui è, soprattutto, prevalso il cosiddetto “populismo di bilancio”, cioè un uso sconsiderato delle risorse, che ha consolidato il modello della Regione “contenitore di provvidenze” di cui parlava Piero Violante, uno strumento di scambio e di clientele politiche – spesso anche oltre i limiti della legalità – non certo utile a soddisfare le domande di partecipazione democratica e di crescita civile e sociale delle popolazioni isolane.
Tutto questo, per corretta informazione, è avvenuto sotto gli occhi tutto sommato compiacenti di una società civile direttamente coinvolta o speranzosa di partecipare al grande banchetto. Perché, sarebbe poco corretto non riconoscere che l’indignazione, che oggi serpeggia fra la gente e soprattutto fra chi finora ha goduto dei benefici di un’Autonomia distorta, si è manifestata solo nel momento in cui ci si è resi conto, e richiamiamo un vecchio adagio siciliano, “non c’era più niente per la gatta”.
A conclusione, di questa breve riflessione si pone un interrogativo: Che fare ? È giusto cioè azzerare l’Autonomia, “rifiutando il presente” come auspicava Barcellona, ovvero, facendosi carico di riscrivere lo Statuto, tenendo naturalmente conto dei grandi cambiamenti avvenuti sul piano istituzionale e sociale, in questi ultimi anni, rivitalizzarla rendendola funzionale ad una autogestione democratica che è cosa ben diversa dal preservare riserve di privilegio e di corruzione, pericoli già avvistati da Gaspare Ambrosini nel suo discorso alla Costituente in occasione della discussione sullo Statuto.
A nostro modo di vedere il problema è, dunque, sì istituzionale ma è anche, e soprattutto politico, e chiama in causa la società civile, la gente che vota, perché sfuggendo alle sirene populiste o disfattiste “a priori”, sappia scegliere una classe dirigente responsabile e capace di affrontare le grandi sfide che il tempo presente, anche nella nostra marginale e disastrata Sicilia, impone.
Devi fare login per commentare
Accedi