Storia

L’asino del Messia: quanto ci somigliano le promesse mancate d’Israele

16 Ottobre 2019

Forse, probabilmente, qualcuno, leggendo L’asino del Messia di Wlodek Goldkorn penserà – o magari ha già detto – ecco il solito ebreo odiatore di sé: definizione da qualche tempo assai in voga e amata dai cultori del pensiero unico nonostante sia oggi, sotto ogni evidenza, totalmente priva di senso e sostanzialmente imbecille. E comunque, secondo costoro, del Goldkorn autore e protagonista di questo libro importante si dovrebbe allora anche affermare che è un sionista odiatore di sé, un comunista odiatore di sé, un polacco odiatore di sé, un israeliano odiatore di sé, un italiano (almeno per ora) non odiatore di sé. Ovviamente nulla di tutto ciò è vero, anzi.

Per chi tre anni fa ha amato Il bambino nella neve queste pagine ne sono la più che degna continuazione. Strana sorta di autobiografia dove biografia – in particolare ebraica – è per antonomasia complessità, sfaccettature, sofferenza nel proprio perenne anelito alla “verità” e alla giustizia. «Sono un devoto, di più, un fanatico della memoria degli sconfitti», scrive Wlodek, «e rivendico con tutte le mie forze la dignità della disfatta». D’altronde cos’altro ci si potrebbe aspettare dal sedicenne che in una giornata di settembre del 1968 atterra a Tel Aviv con papà e mamma provenienti dalla Varsavia antisemita? Si chiama Włodzimierz, Vladimir, l’omaggio a Lenin è palese. Ma per il giovane sionista pieno di sogni e speranza i vecchi, diasporici, “deboli” nomi vanno cambiati; è l’era dell’Uomo Nuovo. Così diviene Asher. «Vuol dire felice in ebraico, ma io l’avevo scelto molto prima del viaggio verso la vera patria. Asher è il nome di mio nonno paterno, ebreo pio morto quando babbo era bambino. Quando in Polonia lo scelsi, pensai che avrei dovuto chiamarmi come lui, che il mio nome, datomi in onore di Lenin, fosse un falso nome. Ora in Israele quel nome era il mio nuovo inizio, la mia nuova nascita e il nuovo destino. L’ho usato al liceo. Ma in fondo ero dispiaciuto di aver perso il mio vecchio nome». Così Asher va alla Fattoria, la Fattoria della gioventù sionista, e al liceo porta i capelli lunghi, litiga con il vicepreside, milita nell’Organizzazione socialista israeliana che cerca di dialogare con gli arabi e di sostenere i loro diritti.

Arriva la chiamata della Tzavà, va a fare il militare. Giovane recluta, a Ramallah, nella camerata trova una scritta: “Uccidi e non farti uccidere”. «La mia patria mi diceva che dovevo uccidere, senza pensarci, senza riflettere; dovevo avere un pensiero sempre in testa: se non uccido, sarò ucciso». E non c’è come la frase, poi, di un ufficiale a ricordargli che gli eserciti servono proprio a uccidere i nemici, a illuminare l’ambivalenza del nostro rapporto con la guerra. Il resto è facile da immaginare (non necessariamente da condividere in toto, certamente però da immaginare). Invece di riportare passaggi più propriamente “politici” delle riflessioni di Wlodek, scelgo il seguente pensiero/metafora che per me dice quasi tutto: «Questo libro è il mio tentativo di riflettere sul sogno di trasformare il deserto, e quindi la trascendenza, in terra coltivata, in un giardino curato da chi pianta gli alberi, taglia l’erba ed elimina le piante inutili e parassite; è anche quello di narrare lo scarto tra l’immaginario, prigioniero dei boschi dell’Europa orientale con i loro elfi e fatine, con i forti profumi dopo la pioggia, e la terribile, asettica magnificenza del deserto. Mi innamorai subito del deserto e non capivo perché gli israeliani volessero trasformarlo in un giardino».

Si mischiano così identità differenti, poliedriche che finiscono con il cementare La Identità di Goldkorn, come quella di molti di noi. Mai immobile, asettica, bensì cangiante. In un uomo come lui, si pensi soltanto alle lingue parlate, pensate, singhiozzate. «L’identità non ha a che fare con la ricostruzione ma con una perlustrazione non lineare – letteraria, sociale, linguistica… per me essere di casa significa conoscere la lingua e, siccome in diverse lingue sono di casa, ho diverse identità».

Guardiamoci intorno, la vita plasma l’identità. Un flash tenero del caro Wlodek: «Ero vestito a festa quando sbarcai a Tel Aviv? Non lo so. I profughi una volta portavano con sé gli abiti migliori. Oggi, dopo giornate di sofferenze nel Mediterraneo, arrivano su gommoni, seminudi e avvolti nelle luccicanti coperte termiche fornite dai soccorritori». Un ultimo ragionamento, per non farla troppo lunga. Tra i protagonisti de L’asino del Messia ci sono infiniti fantasmi. La stirpe Goldkorn, e Amos Oz, Bruno Schulz, Yoram Kaniuk, Zygmunt Bauman… Ed è proprio citando Bauman («Israele non vuole la pace. E io non voglio rimanere in questo paese») che Wlodek ci “spiega” la sua partenza verso nuovi lidi e nuove esperienze.

Un libro assolutamente da leggere. Perché, come diceva il grandissimo Janusz Korczak, non ci è concesso lasciare il mondo così com’è.

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