Storia
Perché celebrare il ricordo di Falcone senza un vero perché?
Quando devono celebrare un ricordo significativo e che ha un certo numero di anni sulle spalle, i giornali si sono dati una forma convenzionale. Si usano le cifre “tonde”, quelle che all’orecchio del lettore hanno un suono anche più definito. I cinque anni, poi i dieci, i venti e via così. Se il meccanismo vi appare forse un filo cinico, sappiate che è l’unico modo per salvarsi dal “ricordismo”, la cadenza impiegatizia del dolore che potrebbe causare quel gran brutto sentimento che è l’assuefazione. Poi ci sono i ricordi che sono più ricordi degli altri, e sono quelli che strappano l’anima, che lacerano e che possono arrivare persino a dividere. La tragedia di Giovanni Falcone, di sua moglie Francesca e della scorta è uno di questi. È forse la memoria più condivisa di questo Paese, insieme all’uccisione dell’amico Paolo Borsellino, così che la storia un bel giorno si incaricò di riunirli sotto quell’immagine complice e sorridente a Palazzo Trinacria, consegnandola a tutte le generazioni successive come bandiera della lotta alla mafia.
Ci siamo sorpresi nel vedere che molti giornali abbiano interpretato il 23 maggio 2020 come un giorno speciale. Perché? Non erano i vent’anni, e neppure i trenta e nemmeno i venticinque dalla strage di Capaci. Si era a 28 anni da quella tragedia, per cui, secondo le forme giornalistiche più convenzionali che ci siamo dati, avremmo dovuto trattare la ricorrenza con il pilota automatico del ricordo, magari con una pagina all’interno e un semplice richiamo in “prima”. Invece “La Stampa” di Torino ha costruito la sua prima pagina interamente sulla strage, una copertina di grande effetto emozionale con un volto di Falcone in bianco e nero, con quel suo sorriso eternamente dolente, sullo sfondo accecante e colorato delle lamiere accartocciate. Molto, molto, bella. «Giovanni Falcone ventotto anni dopo. Cercando l’innocenza perduta», questo il titolo.
E anche la Repubblica ha sentito che questo 23 maggio non dovesse essere un 23 maggio qualunque, perché Roberto Saviano in prima pagina ha raccontato di “Francesca e Giovanni”, partendo da una foto apparentemente “impossibile”, scattata al mare, “sereni, occhi chiusi, le teste poggiate l’una all’altra: un momento di pace”. Una foto così impossibile, e qui perdonerete se consideriamo i giornali ancora una cosa seria, che Repubblica, il più grande giornale italiano, non è riuscita a trovarla. Ha costruito il suo impianto narrativo su quella foto, ha titolato in prima pagina «Quella foto di Francesca e Giovanni» e poi non ce l’ha fatta vedere. Eppure quella foto c’era, bastava un poco di impegno e soprattutto di rispetto per il lettore.
Correndo il rischio d’essere considerate persone poco sensibili, ieri ci siamo posti una domanda: come mai i giornali celebrano il ricordo di Giovanni Falcone in maniera così profonda a ventotto anni di distanza, che non è una data giornalisticamente “tonda”? Prima di formalizzare la questione, ci siamo presi la briga di controllare le prime pagine di un anno prima, il 23 maggio 2019, degli stessi giornali: neppure una riga, forse uno sparuto richiamo in prima.
A quel punto ci siamo sentiti autorizzati ad allargare la questione a persone senz’altro più attrezzate di noi sul piano della conoscenza dei fenomeni mafiosi, e forse anche più spiccatamente sensibili. Una risposta molto convincente ci è arrivata da Sergio Scandura, giornalista di lungo corso di Radio Radicale: «Le “Notti della Repubblica” sono un nero mediatico, vanno bene su tutto: meglio poi se con certa, “rassicurante”, unidirezionalità nelle chiavi di lettura». Il riferimento al verminaio giudiziario che abbiamo sotto gli occhi, tra intercettazioni, accuse, miserie, bassezze, è puramente non casuale. Ma, a fianco a un’incontestabile evidenza, un altro elemento ci è stato offerto come spiegazione del fenomeno: esattamente un sentimento di liberazione, l’idea di uscire dall’incubo della pandemia attraverso i nostri simboli migliori, i più rassicuranti, i più carichi di speranze. La necessità di caricarsi sulle spalle la nostra storia, ripartendo dai fondamentali. Un dopo Covid-19 che avesse le stigmate della sofferenza vera.
E Giovanni Falcone, da questo punto di vista, è forse il riferimento perfetto.
Questi due elementi entrambi convincenti, il disastro della magistratura e il soffocamento patito per il flagello pandemico, che hanno portato i giornali a forzare un ricordo “senza un vero perché”, ci fanno pensare che la memoria di Giovanni Falcone non sia affatto condivisa, e non sappiamo quanto ci importi davvero, se siamo costretti a usarla secondo logiche che esulano dallo stretto dolore per una tragedia. È un meccanismo, esso sì, altamente cinico, che richiama situazioni altrettanto ciniche e comode, come il ricorrere per esempio alla preghiera cristiana, che magari non pratichiamo mai, solo perché attribuiamo a quella simbologia la potenza di proteggerci quando siamo in debolezza, magari in malattia. Giovanni Falcone è la religione anche di chi non crede e spesso da chi non crede viene usato. Meglio saperlo, continuando a celebrarne il ricordo
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