Storia

Anni di piombo penne di latta

8 Novembre 2015

Ho trascorso i giorni a cavallo tra fine ottobre e inizio novembre  –   in  cui si è svolto in Rete un gran dibattito  dai toni accesi e laceranti  intorno alla figura di Pasolini in ricorrenza del quarantennale  della sua atroce  morte –  in compagnia di questo libro di Roberto Contu  Anni di piombo penne di latta,  ove proprio  la figura e l’opera di Pasolini hanno grande evidenza. Si tratta di un corposo volume di oltre  cinquecento pagine che ricostruisce con un intenso lavoro di scavo archivistico, cernita ed evidenziazione critica,  il dibattito intellettuale intercorso nel nostro Paese prevalentemente sulla stampa dagli anni 1963 al 1980:  gli “anni complicati”. Al poeta di Casarsa, alle sue prese di posizione polemiche, contraddittorie, sinceramente lacerate e palpitanti fino al tragico epilogo,  è dedicata  tutta la seconda parte, oltre centocinquanta pagine, quindi quasi un terzo di questo lavoro di minuziosa  ricognizione dell’air du temps che chi aveva vent’anni come me ricorda con scontata nostalgia e con le stesse parole della prima raccolta poetica di Pasolini come “la meglio gioventù”.

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Ho visto che altrove si è  lamentata l’assenza nella  trattazione, tra le altre opere, di Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo (1975), ritenuta altamente significativa, ma che personalmente ricordo come una delle operazioni di marketing editoriale più strampalate mai viste  su un libro difficile,  lirico-melico, un intarsio linguistico di alta ebanisteria letteraria lanciato sconsideratamente  come prodotto masscult con il conseguente prevedibile  tonfo  e la menomazione postuma a carico del libro medesimo che pure aveva le sue bellurie e attrattive squisitamente letterarie. Ma al centro di questa indagine non c’è una ricognizione di tipo  precipuamente letterario.

Più che l’assenza di romanzi capitali spiccherebbe  invece  quella della ricostruzione del dibattito  – che chiunque allora  sapeva essere centrale ma  che si svolgeva però  lontano dalla grande stampa, in piccole riviste più o meno  prestigiose “I Quaderni piacentini”  (che uscirono in serie proprio dagli anni ’60 agli anni ’80) o “Giovane critica” di Giampiero Mughini  e ancor prima  i “Quaderni rossi” – attorno al marxismo eclettico dei Panzeri, dei Timpanaro e in ultimo anche dei Toni Negri che preparò e accompagnò la stagione dei movimenti. Tutto ciò perché fu proprio in quegli anni che si formò e si fissò definitivamente, cioè nei caratteri che sono ancora in mezzo  a noi – finanche nella koiné linguistica e nei luoghi comuni, nelle idee ricevute, nei tic e nei tabù –  l’ ideologia di sinistra più  basica, alla quale si contrapponeva quella di destra dei campi Hobbit e della rilettura di Evola ma  forse ancor  più  il mugugno  incernierato della “ maggioranza silenziosa” di Massimo De Carolis o dei Quadri Fiat, che come un fiume carsico, emerse violentemente negli anni ’90 con l’esplosione di Berlusconi e che rivelò all’Italia che dietro il vociare dei movimenti di sinistra  c’era un arcigno popolo ostinatamente  e saldamente attaccato ai valori acquisitivi e schierato a destra e per giunta fortemente maggioritario nel Paese.

Ma non ci siamo ancora nel gioco delle eccezioni procedurali. Il focus del libro di Contu invero si incentra sull’incontro, spesso scontro,  tra gli scrittori prevalentemente letterati più in vista di quegli anni con  i protagonisti dei movimenti collettivi della scena pubblica italiana e  intorno all’interpretazione da dare  sui grandi eventi del Sessantotto, la stagione delle stragi, i veri e propri anni di piombo degli anni Settanta, i delitti clamorosi quali quelli del Circeo,  e infine  l’epilogo tragico dell’assassinio di  Moro. Il libro ricostruisce perciò,  millimetricamente a volte e rapidamente altre, avvicinando la lente su alcuni episodi e allontanandola da altri, il dibattito degli scrittori in evidenza in quegli anni,  Calvino, Moravia, Pasolini, Sciascia, Fortini, Arbasino – penne tutt’altro che di latta -, con  gli interlocutori della scena pubblica di quegli anni: gli studenti, i leader dei movimenti del ’68 e del ’77, i terroristi e la fitta rete degli intellettuali più o meno organici di quell’epoca vitale, violenta, confusa.

La tesi di fondo che mi è parso di rintracciare nell’immenso materiale profuso è la delineazione della progressiva entrata in  crisi dell’intellettuale engagé o più semplicemente dell’intellettuale che pur chiuso nel proprio gabinetto di scrittura non volge le spalle al proprio tempo;  l’eclissi di questo sacerdote,  privilegiato e ascoltato interprete del discorso pubblico,  che davanti alle convulse rapide di quegli eventi perde il contatto con la scena pubblica  ed entra irreversibilmente in crisi fino a scomparire.  Se si pensa che scrittori come Moravia con  La vita interiore   affrontavano  il magma del terrorismo come cent’anni prima aveva fatto Dostoevskij con i  Demoni  e qualche decennio prima Camus con le sue osservazioni sul terrorismo sparse nelle sue opere più note; se si ricorda  che lo scrittore del calibro di Sciascia con  L’affaire Moro (1978)  si confrontava con la prima tragedia  pubblica d’Italia,  ossia una nazione che aveva saltato la stagione del grande teatro tragico e la decapitazione dei re e che era costretta a viverla nelle cronache politiche fuori tempo massimo; se si pensa che intellettuali apparentemente leggeri, ma pungenti come delle vespe,  del calibro di Arbasino affrontavano  la “cosa italiana” con  In questo stato (1978), ma anche  Un paese senza   uscito nel 1980,  ebbene non si può notare con raccapriccio che oggi gli interpreti privilegiati sono giornalisti variopinti un po’ showman, un po’ sommelier e teatranti come Andrea Scanzi o Marco Travaglio, i quali vengono gestiti e allocati nei talk show televisivi da agenzie specializzate che curano il loro pupillo di scuderia secondo una precisa targettizzazione sia del programma che della platea degli spettatori.

 

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È questa nostra grottesca scena pubblica a confermare la tesi di Contu e  che  spinge ad aprire furiosamente le pagine di questo libro per constatare  che c’è stata un’epoca più convulsa, più tragica, ma anche più  “scritta”. Invero i processi che hanno poi condotto alla nostra società ricca e affluente erano presenti già  nella società dei tardi anni ’70. Contu si sofferma, in finale di opera, su una copertina dell’Espresso del ’77 ove è ripresa la celebre foto del giovane del Movimento che spara ad altezza d’uomo in via De Amicis a Milano  in quella convulsa giornata in cui l’agente Custra venne colpito a morte,  ma anche una manchette in basso in cui il settimanale promuoveva una sua iniziativa di giardinaggio. Insomma un’epoca tragica sì  ma in cui si zappettava tranquillamente. Vorrei aggiungere, a rinforzo, che fu il il “Manifesto”, quotidiano fieramente comunista a lanciare un decennio dopo, a tragedia conclusa ma con le ceneri ancora calde,  l’inserto enograstronomico “Il gambero rosso”. Un inserto di gastronomia chic dentro un quotidiano comunista poteva riuscire imbarazzante dappertutto come un inserto di comunismo in una rivista gastronomica, tranne che in Italia: un Paese in cui  c’eravamo tanto amati, ma anche armati (come chiosava parodicamente proprio Arbasino).

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Roberto Contu,  Anni di Piombo. Penne di latta (1963-1980. Gli scrittori dentro gli anni complicati), Passignano sul Trasimeno, Aguaplano, 2015, pagine 512, euro 25.

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