Storia
A proposito della sentenza circa la trattativa Stato-Mafia
C’è qualcosa che non ritorna nella sentenza che ha per oggetto la trattativa tra Stato e Mafia.
Come ben noto, sono stati condannati quei reparti dei Carabinieri nelle persone di Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno, i primi due a 12 anni, il terzo ad otto anni: il reato ascritto è quello previsto dall ‘art. 338 codice penale che contempla la minaccia ad un corpo dello Stato.
Nella specie si sostiene, come si legge nel dispositivo in quanto le motivazioni saranno note tra 90 giorni dal 20 aprile, che subito dopo la morte di Falcone fu intessuta dallo Stato una trattativa con i mafiosi per porre fine alle stragi che insanguinarono l’Italia negli anni dal 1992 al 1993.
Il fulcro della trattativa era del seguente tenore: la mafia avrebbe terminato le sue stragi – si temeva addirittura per il premier Ciampi- se lo Stato avesse concesso alcune misure contenute nel famoso “papello” di Totò Riina.
In modo particolare non doveva essere prorogato il carcere duro e di isolamento previsto dall’art. 41 bis dell’ordinamento penitenziario italiano per tutti i mafiosi, decretato dopo la morte di Falcone (Decreto Antimafia Martelli-Scotti): solo in tal modo si poteva porre fine alla “stagione stragista”.
La sentenza si fonda solo su deposizioni di pentiti ed è stato tenuto in considerazione quanto riferito dal figlio di Ciancimino, il quale, secondo l’accusa avrebbe rilevato che suo padre Vito era l’anello di congiunzione tra la mafia ed il reparto dei Ros.
Sarebbe stato proprio l’ex Sindaco Ciancimino portatore delle volontà del papello scritto da Riina.
Secondo la sentenza la trattativa ci sarebbe stata almeno sino al 1993 ed i risultati sarebbero stati contrassegnati da un affievolimento del regime per le carceri dure, grazie al ministro Conso che non avrebbe, in totale isolamento, prorogato il regime previsto dall’art. 41 bis, nel novembre del 1993.
Sarebbe stata continuata, grazie al senatore Dell’Utri anche, con il primo governo Berlusconi,1994.
Da qui la condanna di Dell’Utri, anche se Berlusconi non figura come imputato.
Sorgono forti dubbi:
1-Il generale Mori è stato quello che ha catturato Riina ed è stato assolto quanto alla grave colpa a lui addebitata per non aver perquisito il covo di Riina. Di questa fondamentale sentenza non si può non tenerne conto.
2-Lo stesso Mori esce assolto da un altro processo: quello per la mancata cattura del boss Provenzano. Anche di questa sentenza non può non tenersi conto.
3-Dell’Utri per i fatti successivi al 1992 per l’accusa da lui subita, di reato di concorso esterno di associazione mafiosa, è stato assolto. Dunque per gli stessi fatti, svoltisi nel medesimo torno di tempo, viene invece oggi dichiarato colpevole. Non può non tenersi conto della precedente sentenza( ricostruzione di Maria Teresa Conti Il Giornale del 22 aprile 2018).
4-Calogero Mannino non è comparso davanti alla Corte di Assise ed è stato assolto, avendo scelto il rito abbreviato. Mannino era stato indicato come altro politico che avrebbe dato vita alla detta trattativa.
5-Non è vero che Conso ha ceduto al ricatto dei mafiosi ed avrebbe perciò non prorogato il carcere duro, per una concessione frutto del papello di Riina. Come è stato sottolineato da Violante sulla questione della normativa del carcere duro è intervenuta la Corte Costituzionale. La sentenza-del 28 luglio 1993 n.349- della Corte delle Leggi stabiliva che il 41 bis può essere applicato solo caso per caso, e deve essere motivato adeguatamente. Non può essere deciso in blocco per una categorie di detenuti. Per esempio quelli accusati di mafia. E siccome il 41 bis era stato invece assegnato a quei 334 in blocco, non era valido e non poteva essere rinnovato.
Ricordiamo che, secondo l’impianto accusatorio (al processo Stato-mafia), le revoche di diversi provvedimenti di 41bis decise da Conso sarebbero state uno dei segnali mandati dallo Stato alla mafia,a dimostrazione della linea soft scelta nel contrasto ai clan,in ossequio alla cosiddetta trattativa ed in cambio della fine delle stragi.
6-Non vi è il nome di nessun politico che abbia preso parte alla trattativa. Dunque i funzionari dei Ros a chi avrebbero riferito dell’oggetto di tal trattativa?
Ha scritto Paolo Mieli :”Anche se, come qualcuno ha notato, nella sentenza compaiono sì i nomi dei capi mafiosi e degli ufficiali del Ros responsabili di aver «avvicinato» i boss, ma neanche uno di un qualche appartenente ai suddetti «massimi vertici dello Stato italiano». L’unico, Nicola Mancino – per il quale Nino Di Matteo e gli altri pm avevano chiesto una condanna (sia pure per un reato minore: falsa testimonianza) – è stato assolto. Per il resto, niente nomi né cognomi”(Corriere della Sera del 25/4/2018).
Questi forti dubbi, che possono essere superati solo da un’adeguata motivazione, fanno riflettere su come oggi vengono condotti i processi.
Siamo nostalgici di Severino Santiapichi che irrogava pene solo dopo aver valutato le ragioni dell’altro: l’imputato con i suoi diritti ed i suoi doveri.
Lo dimostrò con il processo Moro, per il quale presiedeva la Corte di Assise di Roma: il carcere, egli diceva,deve essere giusto, non spegnere l’uomo.
‘Vorrei mi aiutasse a capire”, chiedeva agli imputati, con l’umiltà di chi vuole ascoltare le ragioni della parte più debole.
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