Storia
8 novembre 1926. L’ultimo giorno di Antonio Gramsci da uomo libero
La sera dell’8 novembre 1926 un gruppo di deputati comunisti, si riunisce intorno alle 18 in una sala di Montecitorio. Il tema all’ordine del giorno è l’opposizione alla mozione con la quale il deputato fascista Farinacci ha proposto che tutti i deputati che si erano astenuti dai lavori parlamentari siano dichiarati decaduti
Il clima è particolarmente teso dopo che il 31 ottobre è avvenuto l’attentato contro Mussolini. All’ordine del giorno lo scioglimento di tutti i partiti, la chiusura di tutti i giornali. Quelle misure saranno in discussione alla Camera la mattina seguente, il 9 novembre. I comunisti sono da tempo rientrati alla Camera e dunque giudicano che il provvedimento in discussione non li riguardi.
Chiudono la riunione intorno alle 20 e la decisione è quella di intervenire nella discussione la mattina dopo per opporsi al provvedimento.
Gramsci esce da Montecitorio – siamo intorno alle 21 – e si reca a casa in Via Morgagni al n. 25, vicino Porta Pia, dove ha in affitto una stanza.
Gramsci vi giunge intorno alle 22. Mezz’ora dopo ne esce in stato di arresto.
Gramsci dunque è travolto dagli avvenimenti e dal suo arresto Era prevedibile? Perché non ha cercato una protezione? Sono domande che ancora oggi non hanno una risposta.
Gramsci da tempo è sotto il controllo vigile della polizia. Lo sa.
E che in Italia tiri una brutta aria del resto è consapevole, tant’è che in quella settimana qualcuno nel Pci organizza un suo espatrio, che non riesce,. E Gramsci stesso è convinto che si avvicini un momento di grande repressione. Ma in quei giorni è preso da altre cose. E tuttavia è sereno
Nella prima lettera che scrive dal carcere alla moglie – in data 20 novembre, 12 giorni dopo il suo arresto scrive:
“Mia carissima Julca, ricordi una delle tue ultime lettere? Mi scrivevi che noi due siamo ancora abbastanza giovani per poter sperare di vedere insieme crescere i nostri bambini. Occorre che tu ora ricordi fermamente questo, che tu ci pensi fortemente ogni volta che pensi a me. Ho cercato di immaginare come si svolgerà tutta la vostra vita avvenire perché rimarrò certamente a lungo senza vostre notizie; e ho ripensato al passato, traendone ragione di forza e di fiducia infinita. Io sono e sarò forte …”
E nello stesso giorno scrivendo alla madre, scrive:
Carissima mamma, ho pensato molto a te in questi giorni. Ho pensato ai nuovi dolori che stavo per darti, alla tua età e dopo tutte le sofferenze che hai passato. Occorre che tu sia forte, nonostante tutto, come sono forte io e che mi perdoni con tutta la tenerezza del tuo immenso amore e della tua bontà. Saperti forte e paziente nella sofferenza sarà un motivo di forza anche per me : pensaci e quando mi scriverai all’indirizzo che ti manderò, rassicurami. Io sono tranquillo e sereno. Moralmente ero preparato a tutto. Cercherò di superare fisicamente le difficoltà che possono attendermi e di rimanere in equilibrio. Tu conosci il mio carattere e sai che c’è sempre una punta di allegro umorismo nel suo fondo: ciò mi aiuterà a vivere.
Come tutte le lettere che si scrivono ai genitori per non suscitare preoccupazioni anche questa contiene dei dati veri e dei dati falsi. L’esperienza del carcere sarà lacerante, ma anche la condizione di umorismo ben presto lascerà spazio ad altri stati d’animo.
Tuttavia, la convinzione di avere una responsabilità politica non abbandonerà mai Gramsci anche molti anni dopo. Nel 1933 scrive in una nota autobiografica a proposito del suo arresto e soprattutto delle precauzioni non prese per che è bene tener presente.
“Si è formato il principio – scrive Gramsci – che un capitano non debba abbandonare la nave naufragata che per ultimo, quando tutti si sono salvati, anzi si giunge da alcuni ad affermare che in tali casi il capitano ‘deve’ ammazzarsi. Queste affermazioni sono meno irrazionali di quanto si potrebbe pensare. Certo non è escluso che non ci sia nulla di male a che un capitano si salvi per primo. Ma se questa constatazione diventasse un principio, quale garanzia si avrebbe che il capitano ha fatto di tutto: 1) perché il naufragio non avvenga; 2) perché, avvenuto, tutto è stato fatto per ridurre al minimo i danni alle persone e alle cose? Solo il principio divenuto ‘assoluto’, che il capitano in caso di naufragio abbandona per ultimo la nave e anzi muore con essa, dà questa garanzia, senza cui la vita collettiva è impossibile, cioè nessuno prenderebbe impegni e opererebbe abbandonando ad altri la propria sicurezza personale”.[Quaderni del Ccarcere, Quaderno 15 (II), §. 9].
La notizia che Gramsci è stato arrestato non solo si diffonde facilmente ma anche suscita timore ed apprensioni all’interno del suo partito.
Il 16 novembre – otto giorni dopo l’arresto – Camilla Ravera, responsabile del centro interno del partito ormai completamente in clandestinità, scrive a Togliatti, rappresentante del partito a Mosca riepilogando le circostanze che hanno preceduto l’arresto.
“Il danno maggiore lo abbiamo purtroppo subito al centro. Ed è gravissimo. (..) Il fatto più grave è l’arresto di Antonio, che è l’unica cosa che abbia effettivamente e fortemente colpito il Partito; i compagni ci rimproverano quasi di non aver saputo salvarlo, mentre ciò era assolutamente necessario. Noi sentiamo di aver fatto quanto era possibile; dato il modo come i fatti si sono prodotti e incalzati, non ci fu possibile fare nulla di più e di meglio quanto tentammo. (…) da tempo noi insistevamo sulla necessità che Antonio andasse fuori come centro di un nostro ufficio all’estero …. In generale Antonio opponeva una certa resistenza: osservava che tale provvedimento bisognava prenderlo quando le circostanze lo avessero giustificato anche di fronte agli operai in modo assoluto; che i capi dovevano, fino a che ciò non diventava impossibile, restare in Italia (…) In seguito agli ultimi attentati, ritenemmo che la necessità di mettere in salvo Antonio superasse quelle altre accennate da lui e decidemmo senz’altro che Antonio avrebbe partecipato all’Allargato e sarebbe quindi passato all’ufficio di cui sopra , senza rientrare qui. Doveva partecipare alla C. e poi partire. Ora avvenne che mentre si recava nel luogo della nostra riunione fu riconosciuto in treno, fermato dagli agenti, e rinviato a Roma, dove fu soggetto a una vigilanza intensissima. Ripresi con lui i collegamenti, mandammo presso di lui una persona incaricata di prelevarlo, ma data la gran sorveglianza, questa persona non ebbe la capacità fare quanto avrebbe dovuto; e tornò presso di noi (a Milano)per avere alte istruzioni. Rinviammo una persona nuova con tutte le istruzioni possibili e tale da poter agire, ma al’improvviso usciva il provvedimento di decadenza dei deputati preceduto dall’arresto di tutti i nostri deputati,… compreso, naturalmente, Antonio” [segreteria del Pcd’I a Togliatti, 16 novembre 1926, Apc 1921-1943, fasc. 420].
Ma altre lettere corrono tra la segreteria e Togliatti negli stessi giorni, da parte di Ruggiero Grieco, in quel momento responsabile organizzazione del partito, ovvero il n. 2 del partito che scrive il 30 novembre a Togliatti: “Noi rigettiamo ogni nostra colpevolezza per quanto è accaduto. Antonio doveva trovarsi a Milano il 31 mattina di ottobre. Egli ha ritardato. Non è intervenuto alla riunione della Centrale sorpreso dagli avvenimenti. Dopo i fatti ho mandato persona a prenderlo. Tutto era pronto per la sua partenza. Egli ha posto ostacoli”
Che cosa dicono queste due lettere? Dicono che non ci sono responsabilità, che un meccanismo di circostanze ha prodotto l’arresto. Ma dicono anche che Antonio Gramsci si è sottratto a una disciplina. In quel linguaggio questo dato non sottintende un giudizio positivo. Non significa che il prestigio e le considerazioni intellettuali di Gramsci vengano svalutate. Ma è il giudizio sulla sua qualità politica che è in questione.
Quanto Gramsci avverte di questa condizione? Nell’immediato non molto, ma lentamente i suoi sospetti aumentano.
Una prima causa è data dalla campagna politica promossa per la sua liberazione. Siamo nei primi mesi del 1927. Gramsci è ormai certo che la sua detenzione non è più legata solo alla sua funzione pubblica di deputato, ma anche di quella di capo del partito. E’ una campagna che è avviata nella primavera del 1927 a livello internazionale in favore della sua liberazione e in cui si sottolinea in particolare il peggioramento delle sue condizioni di salute e il trattamento al limite della morte per fame che subirebbe in carcere Gramsci sa cri indicarlo come il capo del partito agli occhi dei suoi carcerieri in Italia significa trasformare la sua detenzione di 5 anni in una di 20 anni e più e perciò inizia a sospettare che qualcuno fuori, e nel partito non lo voglia per davvero libero.
È anche per questo che egli nelle sue lettere dal carcere di questo periodo, convinto che siano aperte e controllate dai suoi carcerieri, scrive a parenti e suoi interlocutori che invece le sue condizioni sono molto buone. “Sono stato informato, – scrive alla madre il 7 novembre 1927 che all’estero hanno pubblicato delle sciocchezze a proposito della mia salute e non vorrei che qualche anima ‘pietosa’ trovasse il modo di farle arrivare fino alle tue orecchie (è vero, purtroppo, che le cattive notizie giungono sempre in fondo al mondo), tu devi solo credere a ciò che ti scrivo io, che sono il meglio informato di tutti e non ho nessuna ragione per nasconderti la verità.”
Questo sospetto inizia ad assumere una consistenza più precisa nel febbraio 1928 quando da Mosca una lettera di Ruggiero Grieco gli giunge un carcere e in cui si dice: “Noi ti siamo stati vicini sempre, anche quando tu hai avuto ragioni per non sospettarlo, e abbiamo saputo notizie di te e della tua salute. Anzi ci si dice ora che tu non stai bene e vorremmo saperlo per nostra tranquillità ciò di cui avresti bisogno e che cosa noi possiamo fare per te. Tutto quello che ci è stato chiesto, per te, noi lo abbiamo fatto sempre.” (Luciano Canfora, La storia falsa)
È una lettera che suscita il sospetto di Gramsci, ancor più aggravato da ciò che gli dice il giudice istruttore Enrico Macis – Gramsci lo ricorderà in una lettera alla cognata in data 5 dicembre 1932 a dimostrazione che quel sospetto si radica profondamente in lui: “Il giudice istruttore, dopo avermela consegnata, aggiunge testualmente: Onorevole Gramsci, lei ha anici che desiderano che lei rimanga un pezzo in galera!”.
E quel senso di diffidenza aggravato anche da una percezione di solitudine si approfondisce tra il 1929 e il 1932. Sono gli anni in cui Gramsci stende con costanza gran parte delle sue note di lettura e di riflessione e che costituiscono il nucleo centrale dei suoi Quaderni del carcere. In quelle note egli riversa gran parte dei suoi dubbi e di quegli interrogativi che sono presenti nella sua riflessione anche prima dell’arresto. Tra l’altro la dimensione della lotta politica all’interno del partito comunista russo, ovvero la questione del potere crescente di Stalin, dall’altra la necessità non solo di una rinnovata attenzione alla storia italiana alle tradizioni,politiche, culturali e sociali che ne caratterizzano la fisionomia,, ma anche la percezione che quelle condizioni che hanno accelerato tra 1920 e 1921 la costruzione del Partito comunista, vadano profondamente ripensate e che anche il crollo del fascismo non significhi automaticamente l’avvio della rivoluzione, ma che occorra passare una fase di lunga di democrazia politica prima di porre all’ordine del giorno la possibilità della rivoluzione socialista in Italia. Sotto tutte convinzioni ed opinioni su cui Gramsci non solo misura il dissenso con la direzione politica del suo partito negli anni della sua detenzione, ma su cui avverte la contrarietà dei suoi compagni di detenzione con cui prova a parlare. La sua solitudine così cresce e con essa anche la distanza da quel partito che pure sente ancora suo.
Nei giorni che precedettero il suo arresto Gramsci avrebbe dovuto raggiungere Genova per una riunione clandestina del la direzione del partito e alla presenza di un delegato dell’Internazionale comunista. L’ordine del giorno della riunione presentava vari punti su cui Gramsci avrebbe dovuto dire la sua e non solo argomentarla, ma anche approfondire le sue osservazioni critiche. Su un punto, soprattutto: sulla lotta politica e il diritto delle minoranze nel partito comunista russo a ad avere gli spazi e i modi per intervenire pubblicamente e rendere noto il proprio dissenso.
Su questi temi Gramsci aveva scritto, a nome del Partito comunista italiano, una lettera indirizzata al Comitato Centrale del Partito comunista russo. Una lettera che a lungo rimarrà in un cassetto (verrà pubblicata la prima volta nel 1938 e poi una seconda volta nel 1958 prima di diventare un documento definitivamente pubblico, nel 1963, ovvero 37 anni dopo). Ma senza l’emozione di quel tempo.
Ha scritto alcuni fa Rossana Rossanda nel libro in cui ripercorre la sua biografia ricordando il momento in cui quella lettera divenne pubblica e accettabile, anche per il Pci, dopo che per lungo tempo ne aveva negata la autenticità.
“Togliatti quella mattina parlava con me tranquillo, senza enfasi né commenti né giudizi né protervia. E continuò. Sai io non sapevo dove fosse finita la mia replica. Ho anche il biglietto che Gramsci mi lasciò in risposta. Pubblichiamo tutto con una nota che posso aggiungere. Dunque commenta Rossanda, la lettera di Gramsci all’esecutivo dell’Internazionale pubblicata da Silone e smentita dall’Unità era sempre stata vera. Ero tutta eccitata, sarà una folgore, un terremoto. Uscì tutto e non successe niente. Il partito venerava Gramsci e amava Togliatti e di quella terribile rottura non si interessò affatto. O la rimosse subito. Togliatti morì un anno dopo, nell’agosto 1964.!”
Quella lettera è il suo ultimo documento steso da segretario del Pci. Una lettera che aveva sorpreso l’Internazionale comunista tanto da mandare un suo rappresentante con l’incarico di affrontare la questione sollevata da Gramsci direttamente con lui e con tutta la direzione del Pci.
È la riunione a cui come abbiamo visto Gramsci non riesce ad arrivare il 31 ottobre quando è costretto a tornare a Roma da Milano.
Ma al contenuto di quella lettera egli penserà molto negli anni a venire. Non solo a quello, peraltro. Gramsci è convinto da tempo, prima ancora del suon rientro in Italia nell’aprile 1924 che la situazione italiana, con la vittoria del fascismo, richieda il varo di una proposta politica che tenga conto dei caratteri profondi del Paese, delle classi sociali, dei movimenti di opinione della loro articolazione e nei diversi contesti regionali e produttivi del Paese. Gramsci l’ha scritto con chiarezza nel novembre 1923 su un periodico “La voce della gioventù” (il testo si intitola Che fare?) dove ha precisato che la crisi politica del partito non riguarda l’organizzazione, bensì nasca da un deficit culturale e che occorra “fare una spietata autocritica della nostra debolezza” domandandosi “perché abbiamo perduto, chi eravamo, che cosa volevamo, dove volevamo arrivare.
Questa premessa ha senso solo in relazione a un grumo di questioni non teoriche, ma storiche che riguardano la fisionomia della realtà della società all’interno della quale si intende agire. E perciò Gramsci si chiede:
“perché i partiti rivoluzionari sono sempre stati deboli dal punto di vista rivoluzionario? Perché hanno fallito quando dovevano passare all’azione? Essi non conoscevano la situazione in cui dovevano operare, essi non conoscevano il terreno in cui avrebbero dovuto dare battaglia. Pensate: in più di trenta anni di vita, il Partito Socialista non ha prodotto un libro che studiasse la struttura economico-sociale dell’Italia. Non esiste un libro che studi i partiti politici italiani, i loro legami di classe, il loro significato. Perché nella valle del Po il riformismo era radicato così profondamente? Perché il partito popolare, cattolico, ha più fortuna nell’Italia settentrionale e centrale che nell’Italia del sud? Perché in Sicilia i grandi proprietari terrieri sono autonomisti e non i contadini, mentre in Sardegna sono autonomisti i contadini e non i grandi proprietari? Perché nell’Italia del sud c’è stata una lotta armata tra fascisti e nazionalisti che non c’è stata altrove? Noi non conosciamo l’Italia. Peggio ancora: noi manchiamo degli strumenti adatti per conoscere l’Italia, così com’è realmente e quindi siamo nella quasi impossibilità di fare previsioni, di orientarci, di stabilire delle linee d’azione che abbiano una certa probabilità di essere esatte. Non esiste una storia della classe operaia italiana. Non esiste una storia della classe contadina. Che importanza hanno avuto i fatti di Milano del ’98? Che insegnamento hanno dato? Che importanza ha avuto lo sciopero di Milano del 1904? Che significato ha avuto in Italia il sindacalismo? Perché ha avuto fortuna tra gli operai agricoli e non fra gli operai industriali? Che valore ha il partito repubblicano? Perché dove ci sono anarchici ci sono anche i repubblicani? Che importanza e che significato ha avuto il fenomeno del passaggio di elementi sindacalisti al nazionalismo prima della guerra libica e il ripetersi del fenomeno su scala maggiore per il fascismo?”
Effetti di quelle domande saranno il saggio sulla questione meridionale, la stesura delle Tesi di Lione, il testo di analisi politica sulla situazione italiana e le sue prospettive e che scrive insieme a Palmiro Togliatti nel dicembre 1925 e i Quaderni del carcere, un corpo di note di lavoro che è soprattutto uno straordinario deposito di intuizioni, di costruzione di categorie, di temi e questioni che consentono una lettura nuova della società italiana.
È ciò che fa di un progetto politico non un travaso ideologico, rendendo un partito prigioniero di un linguaggio, ma lo strumento versatile capace di proporre domande intorno al funzionamento di una società nel tempo lungo, sulle sue regolarità e sulle sue contraddizioni.
L’effetto è l’accreditamento della politica come criterio e strumento perché conosce gli attori che si muovono sul terreno, ne ha studiato i problemi, ha riflettuto sulle angosce che ne motivano la mobilitazione, e perciò individua il possibile profilo di una soluzione.
L’esatto contrario dell’ideologia. sia nella versione di lisciare il pelo alle inquietudini della piazza, sia di fornire un kit di icone e di parole capaci di consolare nel momento della sconfitta, sia di coccolare i malesseri di chi legge i problemi del mondo. È ciò che Gramsci avverte invece che sta avvenendo dentro il suo partito che qualifica ancora affetto da massimalismo astratto. La sua solitudine aumenta e con essa la sensazione di parlare a nessuno e che forse non valga la pena parlare a qualcuno per cercare di correggerlo. Quando nel dicembre 1930 nel carcere di Turi di Bari egli prova a parlare con i suoi compagni di prigionia, anch’essi comunisti, della necessità di pensare a una fase democratica dopo il fascismo egli trova un ambiente ostile, sordo. Comunque, convinto del contrario non disposto a ripensare le proprie convinzioni. Decide perciò di smettere di parlare, e di sospendere la discussione per sei mesi. Quella discussione non verrà mai più ripresa.
Dunque, quella di Gramsci in carcere appare come una vicenda di progressiva solitudine, una lotta fatta da un uomo dal corpo gracile, particolarmente segnato, dentro una macchina – quella del carcere fascista – ma anche impegnato e in contrasto con l’altra macchina, quella del partito che lo sollecita, ma anche da cui si sente in certi momenti non aiutato, e di cui spesso diffida.
Detto questo, tuttavia, sarebbe sbagliato, pensare a Gramsci come un uomo ripiegato su se stesso.
Questa condizione della solitudine, della riservatezza, della sua condizione di non difesa, che ha avuto come reazione una determinazione, ma anche una ipersensibilità emozionale e mentale, ha attraversato tutta la vita di Gramsci, senza uccidere la sua disponibilità anche a prendersi gioco di se stesso.
In una delle prime lettere dal carcere alla cognata scrive:
Le tue ultime lettere erano veramente un po’ preoccupanti. (vorrei farti rallegrare in qualche modo. Ti racconterò delle storielle. Ti voglio, per esempio, dire qualcosa intorno a me stesso e alla mia fama di molto divertente. Io non sono conosciuto all’infuori di una cerchia abbastanza ristretta; il mio nome è storpiato in tutti i modi più inverosimili: Gràmasci, Granúsci, Gràmisci, Grànisci, Gramàsci, fino a Garamàscon, con tutti gli intermedi più bizzarri. A Palermo, durante un certa attesa per il controllo dei bagagli, incontrai in un deposito un gruppo di operai torinesi diretti al confino; insieme a loro un formidabile tipo di anarchico ultra-individualista, noto coll’indicazione di ‘Unico’ . Nella folla che attendeva l’Unico riconobbe tra i criminali comuni (mafiosi) un altro tipo siciliano (l’Unico deve essere napoletano o giù di lì), arrestato per motivi compositi, tra il politico e il comune, e si passò alle presentazioni. Mi presentò: l’altro mi guardò a lungo, poi domandò: ‘Gramsci, Antonio?’. ‘Sì, Antonio’, risposi’. ‘Non può essere, replicò – perché Antonio Gramsci deve essere un gigante e non un uomo così piccolo.’ Non disse più nulla, si ritirò in un angolo, si sedette su uno strumento innominabile e stette, come Mario sulle rovine di Cartagine, a meditare sulle proprie illusioni perdute. Evitò accuratamente di parlare ancora con me durante il tempo in cui restammo ancora nello stesso camerone e non mi salutò quando ci separarono”.
Quell’uomo non saprà mai cosa si è perso, verrebbe da dire, oggi.
Ma Antonio Gramsci sapeva anche ammettere le sue debolezze. La scoperta dell’amore per Giulia, sua moglie, è raccontata con molta naturalezza in una lettera che egli le scrive. Siamo nel febbraio 1923 quando la loro storia ancora non è iniziata.
“Non sono ancora certo se domenica potrò venire da lei, scrive a Giulia nel febbraio 1923. Desidero molto di venire. Vorrei dirle tante cose. Ma ci riuscirò? Me lo domando spesso, faccio dei disegni di lunghi discorsi. Ma quando le sono vicino, dimentico tutto. Eppure dovrebbe essere semplice. Le voglio bene e ho la certezza che lei mi vuol bene. Sono, è vero, da molti, molti anni abituato a pensare che esista una impossibilità assoluta, quasi fatale, a che io possa essere amato. Questa convinzione mi ha servito per troppo tempo come una difesa contro me stesso perché qualche vota non torni a pungermi e mi faccia rabbuiare. Tutti i miei sentimenti sono avvelenati un po’ da questa abitudine radicata. Ma oggi non riconosco quasi me stesso, tanto sono cambiato e perciò mi pare strano che ella noti e dia importanza a contrazioni nervose e a piccoli scatti che sono fuori di me, che hanno forse un valore puramente fisico. Le voglio bene.”
E, infine, era anche capace di raccontare con onestà il suo smarrimento.
Scrive ancora alla moglie nel gennaio 1936 – in un momento in cui capisce che il suo stato di salute sta deteriorandosi – del suo incontro col mondo quando dopo anni di segregazione, nel novembre 1933 per la prima volta esce dal carcere per essere trasferito ancora in condizione di detenzione al nuovo carcere a Civitavecchia. Sono righe che lo impegnano e forse anche lo umiliano, infatti sono scritte a più di due anni di distanza da quel giorno.
“da dieci anni sono tagliato dal mondo. Che impressione terribile ho provato in treno dopo sei anni che non vedevo che gli stessi tetti, le stesse muraglie, le stesse facce torve, nel vedere che durante questo tempo il vasto mondo aveva continuato ad esistere coi suoi prati, i suoi boschi, la gente comune, le frotte di ragazzi, certi alberi, certi orti, – ma specialmente che impressione ho avuto nel vedermi allo specchio dopo tanto tempo: sono ritornato subito vicino ai carabinieri.. Non pensare che voglia commuoverti: voglio dire che dopo tanto tempo, dopo tanti avvenimenti, che in gran parte mi sono sfuggiti forse nel loro significato più reale, dopo tanti anni di vita meschina, compressa fasciata di buio e di miserie grette, poter parlare con te da amico ad amico, mi sarebbe molto utile.”
Quell’incontro non ci sarà mai. Gramsci muore, la moglie non viene in Italia e non verrà mai. Rimane un legame affettivo forte con la famiglia. Giulia manderà sempre regali a Teresina, la cognata, ma il loro rimarrà un rapporto epistolare, segnato dalle parole scritte, dai comuni affetti, ma non dagli sguardi. Per certi aspetti una vicenda dell’Ottocento trapiantata nel cuore del Novecento. Forse persino incomprensibile per noi oggi, così subordinati all’immagine.
Il volto di Antonio Gramsci è un’icona pop come Marylin Monroe, Martin Luther King e Ernesto Che Guevara. Ma Gramsci come abbiamo visto era anche molte altre cose e la sua vicenda politica, sociale, e infine anche umana dice che nessuno è mai un solo volto o un solo aspetto.
Di Gramsci noi ci siamo fatti col tempo un’immagine, di figura forte, quasi superomistica.
Gramsci al di là della sua testardaggine, o dell’insistenza, aveva un tratto forza e di debolezza, di ritrosia, cui certamente contribuiva anche il suo aspetto fisico, ma su cui pesava anche una condizione di incertezza, pur nella convinzione ferma delle proprie idee.
Forse a noi oggi tutto questo sfugge perché la potenza della parola e il rigore della scrittura ci tolgono la dimensione della persona concreta che ci sorprendiamo di scoprire nelle lettere ai figli, nelle parole per la moglie, nella forza che gli fa pensare di poter ancora governare e scegliere per alcuni aspetti il suo futuro, quando medita su dove andrà una volta finita la detenzione.
Questo a prescindere da ciò che invece pensa per davvero, quando parla senza mediazioni, come rievoca un suo compagno di carcere, Gustavo Trombetti, originario di Castel San Pietro, in provincia di Bologna, il quale ricorda:
“tornammo in cella che era quasi mezzanotte e Gramsci disse che non voleva dormire più fino al mattino. Disse: “questa notte non dormiamo, facciamo venire mattina così, tra poco ci lasceremo e probabilmente non ci vedremo più”. E cominciammo a parlare di tante cose. A un certo punto disse che quando sarebbe stato libero una delle prime cose che avrebbe fatto sarebbe stata quella di venirmi a trovare a Bologna, e scherzando aggiunse: “Che cosa mi farai da mangiare?” Perché il problema del mangiare per un detenuto è un problema molto importante e una delle cose che in carcere si chiedevano spesso, specie ai bolognesi, era di raccontare come si cucinano certe specialità. Mentre così parlava, diventò serio e aggiunse: “Beh, diciamo che io verrò a Bologna, ma credo che non verrò mai. Perché potrò uscire vivo dal carcere solo se uscirò entro tre anni. Se non uscirò entro tre anni non uscirò più”. Eravamo nel 1933 – conclude Trombetti – e lui morì nel 1937 (per la precisione il 27 aprile 1937); una piccola differenza nella previsione fatta quella notte”.
È bene avere in mente queste parole in cui prevale l’amarezza. Gramsci passa gli anni in carcere e alla fine muore perché pensa qualcosa che un regime non è disposto a sopportare. Non muore in carcere perché ha fatto qualcosa, ma perché ha pensato qualcosa. In quegli anni come sappiamo avrà difficoltà a mantenere dei rapporti chiari con sua moglie, cercherà in vari modi di non perdere i contatti con i suoi figli, si sforzerà di capire le ragioni altrui, ma soprattutto non perderà mai di vista il fatto che i suoi interlocutori devono anche e soprattutto ascoltare le sue ragioni. Non dobbiamo dimenticarlo. Può essere che la prosa delle sue lettere, la logica articolata e stringente delle sue riflessioni in carcere ci faccia dimenticare le condizioni materiali della sua vita in quegli anni. Ma noi non dobbiamo mai perdere di vista la sua vita quotidiana, l’insonnia, il senso di panico, le continue emicranie, la sua ira.
Era stato Gramsci stesso, inconsapevolmente, a descrivere i casi della sua vita molti anni prima. “L’esteriorità continua a tiranneggiare i cervelli. Si processa la parola distaccata dal discorso, non potendo mozzare la scatola cranica la si rinchiude in un carcere in compagnia del corpo”. È un editoriale che Gramsci pubblica il 5 febbraio 1918 sull’ “Avanti!”, il quotidiano del Partito socialista .
Il destino aveva parlato con la sua bocca. Probabilmente in molti momenti della sua vita carceraria quelle parole devono essere riemerse. Forse con disperazione, forse con ironia. In tutte le sue riflessioni, forse, c’era anche la determinazione di non dargliela vinta all’esteriorità.
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