Storia
Gli straordinari protagonisti del ghetto di Venezia, che oggi compie 500 anni
Era il 29 marzo 1516 quando la Serenissima Signoria stabilì di rinchiudere tutti gli ebrei che si erano stabiliti a Venezia in un’isola nella parrocchia di San Girolamo, a Cannaregio. Si deliberò l’istituzione del “serraglio de’ giudei” in questo luogo delimitato da un canale, con soli due ponti che lo scavalcavano – quindi facilmente isolabile dal resto della città – e dove in precedenza si trovavano alcune fonderie di metallo. L’area era detta “il getto” (da gettare il metallo fuso), ma nella pronuncia degli ebrei askenaziti, che non conoscono consonanti dolci, “getto” diventa “ghetto”. Questa è l’etimologia della parola.
Il ghetto di Venezia diviene presto il punto di riferimento della diaspora ebraica, per esempio vi si stampa per la prima volta il Talmud (1524). Nei momenti di massima espansione arriverà a ospitare cinquemila persone, affastellate in case di sei-sette piani, mentre gli edifici veneziani non ne hanno mai più di tre-quattro. Lo scrittore cileno Alejandro Jodorowsky in “Quando Teresa si arrabbiò con Dio”, racconta che le preghiere dello shabbat erano tanto intense da far staccare il ghetto da Venezia e farlo volare fino a Gerusalemme da dove tornava soltanto quando si era smesso di pregare. La vita del ghetto era strettamente intrecciata con quella della città. La Serenissima non perseguiterà i suoi ebrei, si limiterà a torchiarli di tasse: non permetterà mai, per esempio, di istituire un Monte di pietà a Venezia perché era conscia che avrebbe messo in crisi i banchi ebraici. Ovvio che da un contesto del genere siano emersi personaggi di grande rilievo.
Leone Modena (1571-1648). Diventa uno dei più importanti rabbini dell’ebraismo italiano. Figlio del suo tempo, perfettamente inserito nel tessuto sociale veneziano, non disdegnerà di frequentare cortigiane in compagnia dei suoi amici cristiani e di darsi al gioco d’azzardo, cosa che gli procurerà non pochi guai finanziari (a Venezia, nel 1638 apre il Ridotto, considerato il primo casinò della storia).
Studioso coltissimo, autore di numerose pubblicazioni, si dedica anche alla musica, stampando una raccolta si salmi, inni e canti di sinagoga a 4 e 8 voci, musicati dal compositore Salomone Rossi. L’opera che lo fa conoscere e apprezzare anche al di fuori dell’ambito ebraico è la “Historia de’ riti ebraici”, un volume con cui si prefigge di spiegare l’ebraismo ai non ebrei. «Nello scriver, in verità, mi sono scordato d’esser ebreo, figurandomi semplice e neutrale relatore, perché ho inteso di riferire e non di persuadere», afferma nell’introduzione. Stampato per la prima volta a Parigi nel 1637, un anno dopo viene pubblicato anche a Venezia, in un’edizione senza alcuni passi risultati sgraditi al Sant’Uffizio. Il libro, in ogni caso, ha un grande successo, sia in termini di copie vendute sia di apprezzamento e contribuisce in modo fondamentale ad avvicinare gli ebrei ai cristiani, a Venezia e pure altrove. La tomba di Leone Modena è visibile nel cimitero ebraico del Lido di Venezia.
Sara Copio Sullam (1592-1641), la poetessa del ghetto. Allieva di Leone Modena, diventa esperta in teologia, filosofia, lingue, astrologia, storia della religione ebraica e letteratura rabbinica. Compone versi che la rendono celebre anche al fuori del mondo ebraico, e nella sua abitazione del Ghetto Vecchio dà vita a uno dei più raffinati salotti letterari nella Venezia della prima metà del XVII secolo. La ricorda anche Giorgio Bassani, in “Il giardino dei Finzi Contini”, pur cambiandole cognome: «Nella sua casa, in Ghetto Vecchio, aveva tenuto aperto per qualche decennio un importante salotto letterario assiduamente frequentato, oltre che dal dottissimo rabbino ferrarese-veneziano Leone da Modena, da molti letterati di primo piano dell’epoca, e non soltanto italiani. Aveva composto molti “ottimi” sonetti che aspettavano ancora a persona capace di rivendicarne la bellezza; aveva corrisposto brillantemente per lettera, durante oltre quattro anni, col famoso Ansaldo Cebà, un gentiluomo genovese, autore di un poema epico sulla regina Ester, il quale si era messo in testa di convertirla al cattolicesimo, ma poi, alla fine, visto inutile ogni insistenza, aveva dovuto rinunciarvi. Una gran donna, in conclusione, onore e vanto dell’ebraismo italiano in piena Controriforma.» Il salotto di Sara – tra l’altro donna assai avvenente – diventa punto di riferimento per i dotti di ogni dove, siano ebrei o gentili, che accorrono per sentirla discettare o per udirne i versi. Purtroppo non ci sono giunti suoi testi, a parte la risposta a un libello in cui la si accusava di non credere all’immortalità dell’anima. Anche lei è sepolta nell’antico cimitero ebraico di San Nicolò del Lido. La tomba reca lo stemma della famiglia: una scala, e il sigillo della poetessa, una formica, o forse di uno scorpione, gioco di parole con il cognome: (s)co(r)pio.
Francesco Morosini (1619-1694), Doge e quattro volte capitano generale da mar (comandante supremo delle forze armate). Soprannominato “il Peloponnesiaco” perché nella campagna militare contro gli ottomani del 1684-’87 conquista il Peloponneso – al tempo detto Morea – consegnandolo alla Serenissima repubblica. È l’ultima grande impresa coloniale veneziana (incidentalmente, il 26 settembre 1687 i veneziani nel conquistare Atene fanno saltare in aria il luogo dove i turchi avevano immagazzinato la polvere da sparo e messo a riparo 2-300 civili: il Partenone).
La notizia della nuova conquista fa esplodere a Venezia una specie di delirio collettivo al quale partecipano da protagonisti gli ebrei veneziani: il ghetto diventa il centro dei festeggiamenti, il che dimostra quanto intimo fosse il legame tra la città e suoi ebrei. Per tre notti, in ottobre, i veneziani accorrono nel ghetto «trasformato dagli ebrei scenograficamente nel più vago teatro che si potesse vedere mediante porticati effimeri, intervallati da olezzanti piante di cedri, ornate con tappezzerie, damaschi, velluti, arazzi, tessuti in seta d’inestimabile valore intervallati da pitture preziose e centinaia di specchiere dorate di straordinaria grandezza. Le donne ebree in quell’occasione andarono a gara nell’ornare finestre e muri esterni delle case con tappeti e preziosi tessuti. In centro al campo del Ghetto Nuovo era stata eretta una loggia con archi, colonne, statue di alabardieri a tutta figura, paggi e moretti scolpiti in legno con torce in mano. Sotto la maestosa loggia, da cui pendevano stendardi di seta e oro, trofei di guerra, sovrastati dal leone marciano, su un trono dorato era stato posto il simulacro in grandezza naturale del Morosini in abito generalizio tra due suoi comandanti di terra. Ai suoi piedi, in atteggiamento supplichevole, alcuni bassà porgevano all’eroe, in coppe d’oro, le chiavi delle città più cospicue della Morea. Sempre in Ghetto Nuovo si potevano ammirare due monti. Su uno campeggiava la statua equestre di Francesco Morosini armato, sull’altro era stato raffigurato il golfo di Napoli di Romània [Nafplion] con galee, galeazze “non dipinte, ma di rilievo” su cui svettavano bandiere venete. Gli ebrei tedeschi del Ghetto Vecchio avevano trasformato la strada che conduce alla loro “scuola” [sinagoga, in veneziano] in una galleria, adornata con arazzi, preziose tappezzerie di seta, tappeti finissimi, quadri e specchiere di grande valore. Inoltre nel campo antistante la sinagoga spagnola, era stato innalzato un anfiteatro, con archi e colonnati a tutto tondo».
Mosè Chaim Luzzatto (1707-1746), rabbino cabalista. Padovano, apparteneva alla scuola mistica, fortemente osteggiata dal rabbinato veneziano. La sua è una storia più che altro di contrapposizione all’ambiente del ghetto lagunare, ma che riveste un ruolo fondamentale perché fa sì che Mosè Chaim Luzzatto emigri. A vent’anni si convince di aver ricevuto istruzioni direttamente da un essere mistico, il magghid. A causa dei forti contrasti, lascia l’Italia per Amsterdam dove può continuare gli studi cabalistici. Nel 1743 si stabilisce a San Giovanni d’Acri, ma dopo tre anni muore di peste. È sepolto a Tiberiade, in Israele. I suoi scritti cabalistici – almeno quelli che si erano salvati dall’obbligo di distruggerli – vengono riscoperti e studiati nel corso dell’Ottocento e ne fanno “il Ramhal”, una delle figure più importanti del misticismo ebraico.
Margherita Sarfatti (1880-1961). Nasce in un ambiente ebraico ormai emancipato dopo che Napoleone, nel 1797, aveva abbattuto le porte del ghetto. La sua formazione culturale avviene a Venezia, dove si sposa con l’avvocato Cesare Sarfatti (il suo cognome da nubile è Grassini), prima che la coppia si trasferisca a Milano. Qui frequenta gli ambienti socialisti di Filippo Turati e Anna Kuliscioff, dove conosce Benito Mussolini, divenendone presto l’amante. Interventista, perderà nella Prima guerra mondiale il figlio Roberto, appena diciottenne, decorato con medaglia d’oro al valor militare. Frequenta e protegge i futuristi e diventerà l’ispiratrice della corrente artistica del Novecento. Negli anni Venti la sua potenza nel mondo artistico è tale che di fatto è lei a decidere chi partecipi e chi no alla Biennale di Venezia.
Tuttavia è nella fondazione del fascismo che si ritaglierà il ruolo più importante, divenendone di fatto la co-fondatrice, salvo poi essere rimossa da un Mussolini misogino e anti semita. È lei, proveniente da una famiglia della buona borghesia veneziana, a fare dello zotico maestro elementare romagnolo una persona in grado di mangiare il pesce con le posate, a istillare in Mussolini il mito della romanità. Era lei a essere ossessionata da Roma, ed è lei a creare il mito del “dux”, scrivendo la biografia di Mussolini, pubblicata prima in inglese e poi in italiano e divenuta il primo best seller internazionale di lingua italiana. Mondadori lo ristampa diciassette volte e viene tradotto in diciotto lingue (in Giappone vende 300 mila copie).
La marcia su Roma viene pianificata a casa Sarfatti, Mussolini ne attende l’esito nella villa dei Sarfatti a Cavallasca (Como) con la loro auto pronta a portarlo in Svizzera nel caso in cui le cose si fossero messe male. Invece Margherita lo accompagna alla stazione Centrale di Milano, dove il futuro duce prende il vagone letto per Roma dove, una volta indossata la camicia nera, incontrerà re Vittorio Emanuele III.
La Sarfatti non è l’unica amante di Mussolini, e nemmeno l’unica ebrea (lo è anche Angelica Balabanoff), ma nessuna lo influenzerà quanto lei. Verrà messa da parte negli anni Trenta, ormai invecchiata, e rimpiazzata da Claretta Petacci che esprimerà sempre un sordo rancore nei suoi confronti. Dopo le leggi razziali del 1938 abbandona l’Italia per l’Argentina e nel dopoguerra, rientrata nel paese natale, pubblica le sue memorie. “Acqua passata” esce nel 1955, ma è una delusione: la Sarfatti riesce a non nominare mai, nemmeno una volta Benito Mussolini, mentre la parola “fascismo” compare una volta sola.
Shylock. Personaggio immaginario tratteggiato con grande realismo da William Shakespeare ne Il mercante di Venezia. Non è un caso che il drammaturgo inglese abbia ambientato il suo dramma a Venezia: in nessun’altra città europea del Cinquecento un ebreo avrebbe potuto avere un ruolo così di rilievo. Il cuore economico della Serenissima batteva a Rialto: Now, what news on the Rialto?, domanda a un certo punto Salanio. A Rialto si ritrovavano i mercanti, lì si aprivano i banchi, lì sono nate le moderne assicurazioni a premio (in calle della Sicurtà, per la precisione). I mercanti e i banchieri ebrei erano parte integrante delle attività realtine. Erano obbligati a indossare una berretta gialla come segno per distinguerli dai mercanti gentili in berretta nera, Riccardo Calimani nella sua “Storia del ghetto di Venezia” ricorda che in alcune giornate a Rialto di vedevano più berrette gialle che berrette nere.
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In copertina, il verbale della seduta del Senato veneziano del 29 marzo 1516 nella quale si stabilì che tutti «li giudei debbano abitar uniti» – dal sito del Museo Ebraico di Venezia
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