Storia

Quando le donne costrinsero il potere a obbedire

5 Ottobre 2019

Ogni tanto rileggo Georges Lefebvre, uno storico che ha molto da insegnare non solo sul valore e sul senso del mestiere di storico, ma anche sul senso civico che ha “scrivere di storia”. Così è per il suo L’Ottantanove.

230 anni fa, più o meno sul far della sera, la folla esce da Parigi e si indirizza verso Versailles.

Lo scopo immediato è riportare la famiglia reale a Parigi.

Lo scopo politico è dire e affermare, con la forza morale, non con la violenza, come sia il popolo a dettare le condizioni della politica a un potere sempre lontano, convinto che il malessere diffuso non sia un tema su cui valga la pena spendere tempo e parole.

Potrei fermarmi qui e limitarmi richiamare questa scena e, in nome dell’anniversario, riproporla come uno «spezzone d’archivio» (la pagina di Lefebvre è quella che segue queste considerazioni)

Ma le forme in cui si definisce un calendario civile, o un insieme di scadenze che divengono date, valgono più che per la scena in sé, per ciò che se ne trae e in questo caso valgono non perché di quella scena da qualche parte è rimasta memoria, ma perché un libro, in un momento specifico la ripropone come una delle scene-madri delle giornate dell’89. Vale dunque come scena (ciò che avviene), come rievocazione/scrittura della scena (e dunque per lo storico che la propone), per il momento in cui la propone.

Lo storico è Georges Lefebvre; l’occasione il 150° anniversario dell’89; il libro in cui quella scena è descritta (ed è quella che è riprodotta alla fine di questa nota) si intitola Quatre-vingt-neuf, è pubblicato nel 1939, appunto nel 150° anniversario. In italiano uscirà con il titolo L’Ottantanove, e sarà Giulio Einaudi Editore a pubblicarlo, un decennio dopo, nel 1949. Nel 1939 era impossibile pubblicarlo in Italia: la Francia non era un paese amico, Georges Lefebvre era uno storico dichiaratamente socialista, il fascismo non aveva alcun interesse a celebrare le parole simboliche della Rivoluzione francese.

L’Ottantanove è un libro che nasce con dei connotati precisi.

È un testo pensato per il grande pubblico, e infatti è un testo senza note e con nessuna indicazione bibliografica.

È un testo concepito per “quadri”, ovvero come procede come un’opera teatrale dove ogni scena ha una sua compiutezza, ha attori propri, e dunque è contemporaneamente parte di un complesso, ma anche vive per la propria specificità. È un testo che esce con il crisma del testo pubblico e infatti è il testo ufficiale sponsorizzato dal governo nell’ambito delle celebrazioni dell’anniversario.

In breve, è un testo, che proprio per le caratteristiche operative nasce come operazione politica e di pedagogia pubblica da parte di un organismo pubblico e per esser più precisi da parte dell’esecutivo centrale di un paese che è alla vigilia di un conflitto da cui sarà scosso e travolto in dimensioni considerevoli per non dire totali.

Proprio per come si presenta a noi quel testo è la dimostrazione delle grandi possibilità che la scrittura storiografica ha, da un lato, di agire come macchina retorica e persuasiva – e dunque da ogni punto di vista di rispondere ai criteri dell’ uso pubblico della storia – e, dall’altro, di sottrarsi alla dimensione propagandistica attraverso la quale sempre più spesso, in Italia oggi in maniera particolare, si pretende di servirsi strumentalmente della narrazione storiografica come macchina persuasiva.

Lefebvre in questo suo testo non nasconde i suoi intenti. Non a caso insiste sul grido “Viva la nazione!”. Non è il richiamo di Valmy (“Vivere o morire”), quello che Lefebvre rievoca, ma più prosaicamente, ma anche più direttamente l’appello che Jean Zyromsky, deputato della sinistra socialista, pubblica su “Le Populaire” il 30 maggio 1939, contro Marcel Déat, che all’inizio dello stesso mese su “L’Œuvre” (4 maggio) si era chiesto se valeva la pena morire per Danzica.

Un confronto che costituisce, anche, la sintesi di una dismissione dalla responsabilità di tutta la società francese come avrebbe sottolineato Marc Bloch nel suo La strana disfatta. Una società in cui la destra abbandona l’idea di interesse nazionale e la sinistra non la matura mai; dove una borghesia è troppo presa dai propri interessi, una piccola borghesia è completamente reclinata su se stessa e la classe operaia non ha mai maturato la fuoriuscita dal suo corporativismo, al cui interno non giunge mai a compimento un processo di reale assunzione di responsabilità nazionale e che, al di là della conclamata «beatificazione» di Jaurès ha continuato a provare una profonda sintonia con il discorso politico di Guesde (un confronto simbolico e di immaginario sociale che se indagato direbbe molte cose anche della natura politica della sinistra italiana).

È questo livello, più precisamente quello del venir meno della fedeltà al patto non scritto, ma identitario della Francia moderna, che Lefebvre legge in controluce la Francia dei suoi giorni nelle pagine de L’Ottantanove.

Proprio la sensibilità a indagare la morfogenesi delle folle e dei movimenti di folla urbani e rurali di cui resta uno dei più grandi storici, permette a Georges Lefebvre di leggere in controluce, attraverso la storia degli eventi della Rivoluzione francese, il proprio tempo.

Il suo è lo sguardo di chi, attraverso le parole del Robespierre patriottico guarda con pessimismo e dolore alle divisioni interne alla nazione e che Lefebvre legge attraverso le parole che l’“incorruttibile” pronuncia il 25 settembre 1793 alla Convenzione.

Tuttavia, la parola di Robespierre non è nella mente di Lefebvre solo nella chiusa e nell’esortazione a vivere a liberi, è anche nella lezione di orgoglio e di fedeltà che si sa di aver sottoscritto. In breve nei patti che devono essere onorati.

È significativa la scelta della narrazione delle giornate dell’ottobre 1789. In quelle due pagine in cui Lefebvre condensa il ritorno del Re a Parigi, ciò che conta, infatti, è la capacità evocativa che esse determinano.

Quello che Lefebvre condensa in queste pagine non riguarda il nesso tra azione ed evento, ma tra azione politica ed effetto, intendendo con essa il contenuto metaforico stesso dell’agire politico. È il tema del passaggio delle mani sul potere, ovvero della tenuta dello scettro.

Esso si configura come una sottrazione delle prerogative politiche dell’attore principale. Se il contenuto è intorno alla sanzione del testo della Dichiarazione, il contenitore è intorno al luogo dove si deposita e si conserva la sovranità.

In questa scena non conta tanto ciò che accade, ma conta invece e moltissimo, come un lettore del 1939 avrebbe colto e rivissuto, attraverso la propria esperienza o la propria competenza, quella scena. Più precisamente attraverso quale altra scena vicina per processo di omologazione o opposta per processo di opposizione, quella scena del ritorno a Parigi del sovrano si sarebbe fissata nella mente del lettore contemporaneo a Lefebvre. La comprensione della storia del senso proprio degli eventi storici non è mai un problema di documenti è, invece, un problema di sensazione, di spessore dei sentimenti, del rapporto tra uno storico che scrive e un pubblico che legge.

“Ogni epoca, ogni uomo  – scrive negli stessi mesi Henri-Irénée Marrou, grande storico francese, in un saggio dal titolo Tristezza dello storico – si scelgono un passato, attingendo nel tesoro della memoria collettiva; ogni esistenza nuova trasfigurava l’immagine che si fa di tale passato attraverso il significato che vi scopre, scoprendosi essa medesima, essa ed il proprio avvenire”.

Lefebvre nel corso degli anni ’30 non si distingue da questo percorso.

Quello che Lefebvre aveva intuito nel saggio sulle folle poi nello studio sulla “paura” è che ciò che accade nell’ottobre 1789 è il passaggio da una condizione di somma di individui a folla attraverso una mutazione che fa cambiare di segno alle motivazioni che spingono gli attori in un luogo, tanto da caratterizzarne una nuova azione, o una azione non prevista.

Il tema delle folle, della mobilitazione che crea la storia, ritorna nelle giornate convulse della storia di Francia tra il 1938 e il 1940. Non è il tema della mobilitazione politica cosciente, ma è quella del sentimento che diviene comunicazione politica. Sono le folle in festa di Parigi dopo l’accordo di Monaco (dove ciò che si festeggia è la mancata osservanza di un patto d’onore nei confronti della Cecoslovacchia), ma anche le folle mute o perdute delle settimane di settembre 1938 come le descrive Victor Serge nelle sue Memorie di un rivoluzionario.

Sono le folle che attraversano la Francia nel giugno 1940 e che Bloch descrive come masse in fuga senza una direzione o una determinazione ma che legittimano Petain, affidandosi a una sorta di “grande padre” della patria e, contemporaneamente, rinunciando alla propria sovranità. Sono le stesse folle che ascoltano attonite l’ultimatum tedesco in Casablanca e che oscillano tra vergogna e orgoglio quando si riappropriano del proprio inno nazionale.

Sono le folle il tema di Lefebvre, quelle che si mobilitano nel corso dell’ ’89 e che riempiono le sue pagine quelle che rimangono attonite negli anni che precipitano verso la guerra, e alle quali deve e vuole parlare mentre scrive quelle pagine.

Ma non è solo un problema di mobilitazione o di violenza. E’, anche, la sottolineatura della distanza tra una Francia che si presentava come capace di grandi azioni nella storia e una Francia attuale che si sottrae alla storia.

È in questo continuo passaggio tra il passato e le incertezze o la distanza del presente da quel passato che si colloca l’uso pubblico della storia. Ovvero, nel considerare i cittadini non individui da istruire, ma soggetti che devono misurare la propria fisionomia politica, culturale e anche civica.

 

 

 

 

Georges Lefebvre, L’Ottantanove, Giulio Einaudi Editore, Torino 1949, pp. 212-214

 

“L’Assemblea si sciolse verso le tre del mattino. Era stata la sola a trarre un sostanziale vantaggio da questi avvenimenti: il re aveva accettato i decreti costituzionali e riconosciuto implicitamente che la sua sanzione non era loro necessaria; una volta di più, una rivoluzione di massa aveva assicurato il successo della rivoluzione dei giuristi. Probabilmente la maggioranza se ne sarebbe appagata. Ma i Parigini non si erano disturbati per così poco: all’indomani, gli aristocratici potevano riprendere il sopravvento sul re; la stessa Assemblea si era mostrata lenta e molle; bisognava farla finita, e, portando il monarca e i deputati a Parigi, porli sotto la sorveglianza del popolo.

 

Poiché molti dei dimostranti non avevano potuto trovare asilo, alcune centinaia di loro, fin dalle sei, si radunarono alle cancellate del castello. Poiché una di esse era rimasta aperta, la corte fu invasa e scoppiò un tafferuglio: una guardia del corpo fu messa a morte, poi un giovane operaio fu ucciso da un colpo di arma da fuoco; una seconda guardia fu massacrata. La folla raggiunse la scalinata che conduceva all’appartamento della regina e penetrò fino all’anticamera, respingendo le guardie del corpo, e uccidendo, o ferendo molte di loro. La regina dovette rifugiarsi dal re.

Le guardie nazionali nulla avevano fatto per fermare gli invasori. Quando ormai era tardi, vennero a mettere fine al combattimento, e, impadronitesi dei posti di guardia interni, fecero sgombrare il castello. La Fayette, che aveva passato al notte al palazzo di Noailles, comparve a sua volta, riconciliò le guardie nazionali con le guardie del corpo e si mostrò al balcone con la famiglia reale. La folla, sulle prime indecisa, finì per applaudirli, ma gridando: «A Parigi!» , e senza muoversi d’un pollice. Non c’era più da farsi nessuna illusione, e, dopo pochi minuti, il re cedette. Tuttavia, volle chiedere il parere dell’Assemblea; questa rispose soltanto che essa era inseparabile dalla persona del re, il che equivaleva a votare il trasferimento a Parigi.

All’una, al rombo del cannone, le guardie nazionali, con un pane sulla punta della baionetta, aprirono la marcia, seguite da carri di grano o di farina, adorni di fronde, scortati dai facchini del mercato e dalle donne, che portavano rami d’albero legati con nastri, alcune sedute o a cavallo dei cannoni. «Si sarebbe creduto di vedere una foresta ambulante, attraverso cui luccicavano i ferri delle picche e delle canne dei fucili», scrisse un testimone. Venivano poi i granatieri, che proteggevano le guardie del corpo disarmate; poi, il reggimento di Fiandra e gli Svizzeri; infine, la carrozza del re e della sua famiglia, con a fianco La Fayette a cavallo, e le carrozze dei cento deputati scelti a rappresentare l’Assemblea. Dietro ancora guardie nazionali e la folla.

Si procedeva a stento nel fango; pioveva; e presto si fece buio. Insensibile alla tristezza dell’ora, il popolo per un istante placato e fiducioso, non pensava che lla sua vittoria, cantava e scherzava; riportava a casa «il fornaio, la fornaia e il garzoncello».”

Bailly accolse il re alla cinta daziaria, e lo condusse all’ Hotel-de-Ville, dove vennero pronunziati dei discorsi. Soltanto alle dieci la famiglia reale rientrò alle Tuileries, abbandonate da più di un secolo.”

 

Commenti

Devi fare login per commentare

Accedi

Gli Stati Generali è un progetto di giornalismo partecipativo

Vuoi diventare un brain?

Newsletter

Ti sei registrato con successo alla newsletter de Gli Stati Generali, controlla la tua mail per completare la registrazione.