Storia

La morte nel Canal Grande interroga la nostra giornata della memoria

27 Gennaio 2017

Non so cosa abbia pensato Pateh Sabally, 22 anni, morto due giorni fa a Venezia in mezzo al Canal Grande a pochi metri dalla riva. Non ha gridato, non ha preso il salvagente. Sentiva però le urla… “Africa neghite”. Forse ha pensato che il limite era superato e che  potesse bastare. Quella morte ha a che fare con la giornata di oggi.

“La commemorazione non è la conoscenza, come la memoria non è la storia”.

E’ la frase che l’8 gennaio di quest’anno in occasione del secondo anniversario della strage di “Charlie Hebdo”, del genocidio della satira, è apparsa sulla porta d’ingresso del “Memorial de la Shoah” di Parigi. Assumo questa frase come il profilo del ragionamento che intendo proporre qui.

Chi parla il 27 gennaio? Non è un domanda retorica.

Credo che a partire dall’anno scorso sia strutturalmente cambiata una condizione. Mi spiego.

Il 27 gennaio del 2016 è finito un ciclo generazionale, e con questo è finito un modo di discutere, riflettere, parlare, comunicare i contenuti di una lezione di storia. Da quando è nata la Giornata della Memoria ha costituito immediatamente una pratica emozionale fatta di tre elementi fondamentali:

·         il testimone oculare di un tempo storico;

·         un mediatore professionale, che di solito è un docente di storia;

·         un gruppo di adolescenti che ascolta un racconto.

Il Giorno della Memoria, in qualche modo, ha avuto la stessa struttura narrativa di come i vecchi di una società raccontano (raccontavano) ai più giovani la storia della propria famiglia.

La «Generazione Doppio Zero», cioè i ragazzi nati nei primi anni Duemila, entrati nella scuola circa dieci anni fa, hanno strumenti propri, linguaggi propri e un senso del passato prossimo che glielo fa percepire come se fosse già un tempo molto lontana. Ascoltano le parole e i racconti di chi ha 60 anni più di loro senza immediatamente capire un mondo: o sono travolti dall’emozione oppure ne hanno talmente paura che la rifiutano.

La Giornata della Memoria ha oggi nuovi protagonisti: quelli che hanno meno di 20 anni che chiedono che quella storia che fino ad oggi hanno ascoltato diventi un’esperienza emozionale, con la quale fare un percorso.

Per tanti anni abbiamo pensato che fosse sufficiente leggere una frase di Levi, un testo di Brecht, una poesia. Oggi, per capire il percorso di disperazione e un vissuto conflittuale dobbiamo seguire un diverso percorso. Dobbiamo capire cosa accade nella testa di un ragazzo quando vede Bastardi senza gloria, o farlo riflettere su un film come L’onda. Non raccontargli il totalitarismo, ma farlo confrontare con una storia come quella del film, che lo mette davanti al fenomeno concreto. Quelle scene parleranno ad un adolescente meglio di un qualsiasi testo teorico. E dopo, forse, gli faranno venire voglia di scavare, di leggere, di saperne di più.

La «Generazione Doppio Zero», va a cercare le immagini sul web. Dalle parole che lì incontrerà, dalle immagini che salverà e porterà con sé fissandole in un qualsiasi supporto con cui comunica, giungerà alla carta, alle parole su carta.

Bene siamo qui, anche quest’anno.

Forse per molti è un risultato. Mi permetto di dubitarne. La domanda cui credo dobbiamo cercare di dare delle risposte non è verificare la tenuta della memoria, ma dare consistenza alle domande che riguardano la funzione civile della storia.

Chiediamoci non che cosa è bene non dimenticare ma se vale la pena di ricordare e soprattutto perché. La domanda riguarda la funzione non celebrativa bensì utilitaristica della memoria.

Voglio insistere su questa alternativa.

“Celebrativa” è quella prassi che riguarda in forma stringente la modalità con cui abbiamo costruito il nostro calendario civile in questi ultimi anni.

Perduta gran parte del calendario costruito su date storiche che ci riguardano direttamente perché tappe essenziali della costruzione della nostra identità nazionale, abbiamo prevalentemente lavorato su date civili, su date cioè che esprimono valori. In alcuni casi si tratta di vari che avvertiamo fortemente, in altri di valori che hanno dimostrato una capacità minore di mobilitazione o su cui la sensibilità ha avuto maggiori difficoltà a farsi bene collettivo, anche se rappresentano valori tutt’altro che marginali. Per esempio perché il 12 novembre, Giornata del ricordo dei Caduti militari e civili nelle missioni internazionali per la pace, che riguarda un impegno primario del nostro Paese, non solo non mobilita nessuno, ma non crea memoria?

Io credo che questo stesso percorso, magari più lentamente, coinvolga anche questa giornata, il 27 gennaio. Perché appunto percepita o fatta propria attraverso un elemento celebrativo.

Siamo il Paese con più date memoriali nel proprio calendario. Siamo pieni di tante date di feste e di giorni della memoria, ma abbiamo uno scarso rapporto critico con la storia. Quella ridondanza rischia di incrementare la sacralizzazione del passato e l’irrilevanza degli eventi terribili che accadono nel nostro presente.

Uscire dall’elemento celebrativo significa adottare una funzione utilitaristica della memoria. Con utilitarismo intendo, ciò che produce vantaggio. Nel nostro caso significa valutare o a misurare l’efficacia della nostra azione ora.

Dunque non ci mobilitiamo, parliamo o ci riuniamo perché?

Qual è il tema del 27 gennaio? Il genocidio.

Dunque come e in che forme la riflessione e la memoria o lo sguardo concentrato sul genocidio e lo sterminio rende minimo il dolore e massimo il piacere? L’idea che si possa agire per impedire ripetersi del genocidio è uno dei modi per misurare l’efficacia di un’azione che connette sapere, ovvero prendere consapevolezza di ciò che è stato, con ciò che facciamo ora o che è possibile fare ora. La condizione è dunque “sapere per fare

Non è una condizione che appartiene al passato. Riguarda il nostro presente e ci chiama in causa da tempo. In questo senso il 27 gennaio non è un momento di rievocazione del passato, ma uno di riflessione sul passato. In concreto riguarda noi più che i nostri nonni.

La prevenzione dei genocidi e più in generale dei crimini contro l’umanità è all’ordine del giorno della politica internazionale dopo le tragedie del Novecento in Europa e l’apertura di altri fronti di persecuzione e di sterminio nel mondo. La sensibilità degli Stati è cresciuta con l’entrata nel nuovo millennio, ma rimane ancora molto limitata e troppo spesso impotente.

Dunque la prima questione che propone la giornata della memoria è che cosa noi siamo in grado di pensare e poi di fare oggi.

Da ogni trauma della storia si esce trovando le strade per non ripercorrere quella tragedia caso mai quelle condizioni si ripresentassero. La domanda è semplice e diretta ed è la seguente: esiste un modo o un percorso in cui i genocidi siano evitabili? Esiste una politica preventiva contro gli stermini?

Bisogna dire che nelle occasioni che si sono presentate in questi anni, ciò che abbiamo portato a casa non è una vittoria su questo piano (è sufficiente dire Srebrenica o Aleppo, per stare a tempi a noi più vicini).

Quando nel maggio del 2011 è stato catturato Ratko Mladic, molti, ricordando lo sterminio di Srebrenica del luglio 1995, hanno detto che Srebrenica ci aveva “rivelato” Auschwitz. Ne dubito. Noi di fronte a Srebrenica abbiamo scoperto un’altra cosa, ma non siamo in grado di dirlo, ancora oggi, a più di venti anni distanza, perché dovremmo fare i conti con il disagio della memoria.

Srebrenica 11 luglio 1995, è la dimostrazione che sapere che sta accadendo qualcosa, vederlo persino, non impedisce che quella cosa non solo sia possibile, ma che avvenga. E soprattutto abbiamo scoperto che dopo, noi, non i carnefici, siamo ancora in grado di vivere senza sentire la vergogna. A Srebrenica, in breve noi abbiamo scoperto, ma non siamo disposti ancora a riconoscere, che non è vero che lo sterminio avviene perché nessuno lo sa e che se avessimo saputo, o visto, non sarebbe potuto avvenire. Ma che lo sterminio avviene, lo vediamo in diretta e complessivamente continuiamo a pensare che sono “fatti loro”. Comunque che non ci riguarda. Srebrenica luglio 1995, uno sterminio che è avvenuto non mentre tutti eravamo in vacanza, ma in un giorno infrasettimanale (per la cronaca era martedì), a poca distanza di qui, costituisce un evento ineludibile per riflettere sul senso della memoria e sulla sua funzione. Non era la prima volta. Quindici mesi prima era già avvenuto in Rwanda. Anche allora era prevalso il silenzio, è accaduto di nuovo, altre volte, dopo: in Cecenia, è avvenuto in molte parti della Turchia, ad Aleppo da ultimo.

A differenza di settanta anni fa i carnefici non vogliono sentire che ne parliamo. E’ normale. Quando i carnefici governano, non amano chi racconta loro gli stermini che hanno compiuto. Ricordiamoci che se noi parliamo di Auschwitz, di Sobibor, è perché i carnefici hanno perso. I carnefici non sempre perdono. Qualche volta vincono e governano, anche per molto tempo. Quando questo accade, e oggi accade, la nostra agenda non può essere solo commemorare, ma ci impone di parlare.

Che si fa? Questa è la domanda.

E’ una domanda ineludibile e a cui Piotr M. A. Cywiński, il direttore del direttore del Memoriale e Museo di Auschwitz Birkenau , (Non c’è una fine. Trasmettere la memoria di Auschwitz, Bollati Boringhieri) non si sottrae e che ci riguarda in prima persona:

Se posti di fronte alla condizione di vedere lo sterminio (ma appunto non l’abbiamo visto a Srebrenica o a d Aleppo in diretta?) che si fa?

“Non illuderti – scrive Cywiński alla fine del suo libro – che sia sufficiente prendere una posizione, denunciare pubbli­camente un tiranno totalitario. Questo potrebbe al più irritare il tiranno, ma certo rovinare il senso di benessere del tiranno non è l’obiettivo principale. Non è questa la preoccupazione principale degli individui che stanno per morire, o i cui figli moriranno presto tra le loro braccia. I Giusti tra le Nazioni non scrivevano lettere di prote­sta contro Hitler. Non focalizzarti a combattere la causa alla radice. Sii minimalista. Aiuta una persona. Solo una. Puoi sempre farlo. Fallo adesso”.

Essere minimalisti, suggerimento apparentemente di basso profilo, ma che invece ci obbliga a ragionare in termini di cose concrete da fare.

Proviamo a considerare un altro corpo di questioni connesse al nostro presente anch’esse in relazione diretta con il 27 gennaio.

Dunque abbandoniamo la dimensione di memoria come ricordo e proviamo e connettere la parola memoria con vari contenuti e soprattutto con vari percorsi riferiti alla scena concreta oggetto di memoria.

La memoria è sempre memoria di qualcosa e di qualcuno e nel tempo è memoria di contenuti che sono parole-chiave connesse con la scena della violenza, degli stermini, della violazione del corpo degli altri. Sono molte le memorie che includiamo dentro il temine riassuntivo di “memoria”.

Riguardano per esempio le convinzioni (e dunque le ideologie e per tutte i nazionalismi) come macchine che hanno prodotto atti, azioni. In questa categoria rientrano, la questione dei carnefici, delle macchine burocratiche, dei tecnici. Ma attenzione così come studiamo i totalitarismi e le tecniche genocidi arie dei totalitarismi del Novecento abbiamo capito che non era mai solo una ristretta avanguardia responsabile, ma dietro appunto, come ci ha fatto notare anni fa lo storico Christian Ingrao (Credere, distruggere. Gli intellettuali delle SS, Einaudi), stava una macchina operativa, una macchina burocratica, un corpo di tecnici che partecipavamo alla macchina della distruzione.

Nella loro scelta sta l’adesione convinta a una guerra totale contro ciò che la propaganda nazista ha definito la minaccia all’esistenza della Germania rappresentata dal binomio ebrei-comunisti. E’ il passaggio dalla conquista con degrado delle popolazioni vinte, caratteristica della prima fase della guerra, all’ annientamento che inizia sistematicamente prima nei confronti degli ebrei e poi anche di una parte consistente delle popolazioni slave, soprattutto russi, dal giugno 1941. E’ quello che Ingrao denomina come progetto genocidario.

Un’azione in cui l’ideologia del presunto accerchiamento della Germania sostenuto dal nazismo (e assorbito dai funzionari) produce la pratica dello sterminio visto come l’atto liberatorio da una minaccia altrimenti mortale. Un processo in cui sterminare è un dovere da compiere. Il segno di un lavoro ben fatto, tecnicamente riuscito, compiuto senza emozioni. Un gesto burocratico preventivo e una guerra sterminativa per legittima difesa in nome della salvaguardia del proprio mondo e per i quali “fare il genocidio” non costituisce problema.

Una convinzione che assorbe questo nucleo di “tecnici” e intorno a cui Ingrao scava con attenzione. Un percorso che nasce dentro l’adolescenza, si origina dalla frustrazione della sconfitta all’uscita della Prima guerra mondiale – quando la maggior parte di loro ha tra i 13 e i 16 anni. Una conseguenza di essere stati traumaticamente “bambini della guerra”.

Una condizione che non è l’effetto dello spirito del tempo di cui dopo dissero di essere vittime, perché di esso furono i creatori, più che i sostenitori. Uno spirito di cui il nazismo rappresenta ai loro occhi una risposta cercata, più che una proposta trovata.

E che non si chiude allora. Si chiede, infatti, Ingrao, alla fine, se quella condizione non ritorni anche anni dopo, nei traumi di chi da bambino, negli anni’40 ha visto e subìto le azioni di Hermann Behrends responsabile della divisione SS “Handschar” – composta da croati, bosniaci e kossovari musulmani, operativa in Serbia e Montenegro, in luoghi per noi oggi carichi di sangue e di ferocia come Monstar, Tuzla, Bihác. Chissà che anche lì non si siano generati altri “bambini della guerra” che in anni recenti hanno iniziato il loro progetto genocidiario. Una catena difficile da spezzare definitivamente. E’ una scena che ci aiuta a capire Palmira, o no? Oppure è muta? Io credo che ci aiuti a capire Palmira, o un qualsiasi luogo tra la Siria e l’Irak, dove sono nati un mese fa, un anno fa, ieri, forse in questo steso momento in cui siamo qui, altri “bambini della guerra”

Che cosa accade se invece di usare la parola “carnefici” che per sicurezza collochiamo in un tempo di tre generazioni fa, usiamo per coloro che fanno gli stermini di massa o che come gli “Uomini comuni “ di cui ci parla Christopher Browning, vanno in case, prelevano individui, li collocano sul bordo di buche scavate in prossimità della foresta, se per tutti costoro noi usiamo la parla “fanatici”? pensiamo ancora che stiamo parlando di scene del passato che non hanno relazione con il nostro presente ora?

Il senso comune fa coincidere il «giorno della memoria» con impegno contro l’oblio. È lodevole, ma a me pare che la premessa sia errata. Nessuno, né tra i carnefici, né tra gli spettatori, si è mai dimenticato niente. Semplicemente pensava o che fosse un merito (perciò l’ha tenuto bene a mente) o che non valesse la pena preoccuparsi (e l’ha collocato tra le cose viste, ma di secondaria importanza).

In problema in tutti e due i casi non è l’oblio, ma ciò che si ritiene essere un atto responsabile.

Il problema della memoria non è mai cosa si sa, ma come si collocano le cose che si sanno nella nostra in mente in relazione a ciò che consideriamo prioritario o impellente non tanto dire, ma, soprattutto, fare.

Il primo passo da fare quando si parla di riflessione civile della storia è sapere come si classificano i fatti, con quali parole si indicano gli eventi e come si risponde, ovvero a quali risorse culturali e anche operative si ricorre per trovare soluzioni alle emergenze cui dover far fronte.

Tutti temi e snodi che il nostro tempo propone. La risposta continua ad essere latitante, incerta, al più celebrativa.  La memoria al futuro chiede risposte diverse, capaci di assumersi la responsabilità al presente e del presente.

 

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