Storia
27 gennaio 2018. Il silenzio del mare e il silenzio degli uomini
Il silenzio del mare di Vercors è un testo breve in cui i protagonisti non si scambiano parole, ma comunicano con forza la propria personalità e la propria condizione. I protagonisti del Il silenzio del mare testimoniano di questa scelta e gran parte dei lettori che leggono quel brevissimo testo capiscono che quella scena parla per loro, prima ancora che a loro.
Il silenzio del mare non è solo un testo scritto, è anche una pièce teatrale che domani sera, 27 gennaio 2018, sarà rappresentatata a Milano da Teatro Due di Parma in anteprima nazionale alla Fondazione Giangiacomo Feltrinelli nell’ambito delle iniziative dediate alla giiornata della memoria (per altri dettagli vedi qui).
Il tema non è riflettere sullo sterminio, nella Giornata della memoria, bensì confrontarsi con il tema dell’irreducibilità, della opposizione civile ai totalitarismi e ai razzismi in un’epoca in cui il presente torna a fare le rime con il passato.
Che si fa quando alcune parole tornano a riempire la scena pubblica? Quando la parola “razza” non crea scandalo? quando per legittimarne l’uso si costruisce una opinione falsamente liberale dicendo (e scrivendo) che è la Costituzione (all’articolo 3) che legittimerebbe la parola?
Che si fa quando un candidato ale prossime elezioni regionali per scuarsi dice che è un lapsus sapendo che non lo è, ma un test per capire se si può usarla?
Non è vero che esitono i lapsus. Sono solo le parole che contano. Il resto sono chiacchiere. Esistono le convinzioni. Esistono le parole e le parole segnano irreversibilmente una linea tra prima e dopo.
Dunque il presente torna a fare le rime col passato. Quel passato è da una parte l’Europa nazificata, consenziente, affascinata dalla potenza nazista e, dall’altro, l’Europa degli uomini e delle donne che volevano e dovevano trovare e fondare un linguaggio per riprendersi in mano il futuro. L’arma nel tempo del consenso al totalitarismo era dare il segno di non aderire. E’ il silenzio, quell’arma. Non è l’ultima chance, è la prima per riprendersi il diritto di parola. Noi oggi quel diritto lo abbiamo ancora, ma è bene sapere che cosa si può fare in condizioni estreme.
Francia 1941. L’occupazione nazista della Francia spacca il paese: in tre: una parte sotto diretta presenza dell’occupante; una parte governata da Philippe Pétain, con il consenso degli occupanti, una parte in esilio guidata dal Generale de Gaulle. In mezzo – lacerata, divisa, smarrita – sta una popolazione in cerca di una propria identità che sente smarrita.
Il silenzio dunque non è un’assenza di parole e di suono. E’ un modo attraverso il quale si possono comunicare contenuti, idee, sensazioni, emozioni.
Il silenzio dunque è carico di parole. E’ su quel carico che conviene riflettere.
Capita sempre più spesso che parlare di memoria, nel giorno della memoria sottintenda riflettere sul silenzio, più spesso inteso come atto di chi desidera non essere coinvolto come gesto di assenza. Spesso le considerazioni sul silenzio si presentano sotto le vesti della predica.
Ci fu il silenzio allora e, quel che è più interessante, non è che dopo il 1945 ci sia stato un profluvio di parole. C’è stato il silenzio della Chiesa per molti decenni, ma la Chiesa non è stato l’unico attore a lungo silente. C’è stato in campo storiografico un silenzio, comunque una rievocazione di maniera, che è durato almeno quarant’ anni (la sua rottura ci sarà solo nel 1978, allorché la rivista “Il Ponte” dedicherà un numero monografico all’ Italia della legislazione razziale). C’è stato un silenzio della società civile. C’ è stato, infine, il silenzio istituzionale, per cui mentre tutti credono che il corpo legislativo e decretizio delle leggi razziali sia decaduto all’ indomani del 25 luglio 1943, a un’analisi giurisprudenziale risulta invece che l’iter è stato molto più lungo e si è chiuso nientemeno che nel 1987. In silenzio, appunto.
Si potrebbe disquisire a lungo del silenzio, degli imbarazzi o degli artifici retorici messi in funzione una volta che su quel silenzio si squarci un velo. Ma questo mi sembra un altro modo di proporre una rievocazione di maniera. Il silenzio non è un territorio privo di tracce. E’ una forma di comunicazione tra le più intriganti e le più inquietanti.
Il silenzio è polisemico. C’ è il silenzio del braccato, dell’individuo in clandestinità, del muto, dell’eremita. Per queste figure, il silenzio è molte cose: un’arma, una condizione, una scelta di costume o una legge. In ogni caso rientra tra le risorse, le condizioni oggettive o quelle liberamente scelte, che inducono o obbligano a ricorrere ad altri codici, a attivare altri sistemi comunicativi. In breve a trovare altri segni. Per tutti il silenzio è una sfida. Può essere una condizione temporanea o permanente, ma obbliga ad attivare gli altri sensi, ad incrementare le loro potenzialità segniche. Questo tipo di silenzio contiene un alto potenziale di creatività.
Il dato che tuttavia accomuna queste diverse condizioni, liberamente scelte o subite, è la determinazione a testimoniare di qualcosa. Silenzio, in questo caso, non è cessare l’attività del dialogo, ma esprimerla attraverso un apparato di convenzioni “mutilo”. In un qualche modo si configura come lo stimolo a trovare altre vie, a disarticolare le parole e i loro significati e a ricomporli attraverso un universo, gestuale, fisiognomico, visuale altrimenti arido, o comunque non sviluppato. In questo caso è possibile ascoltare il silenzio, interrogarlo, scoprirne le retoriche e individuarne le strategie che specificamente lo connotano in quanto forma della comunicazione.
C’ è un altro tipo di silenzio che tuttavia occupa il nostro immaginario allorché si apre la domanda sull’ assenza di parola nella storia: è quello della dimissione dalla vita, della creazione di una barriera protettiva e difensiva rispetto all’ esterno. In questo caso il silenzio non è la risorsa per trovare altre forme di comunicazione, ma la soluzione di ripiego o lo strattagemma per evitare di posizionarsi. Il silenzio è allora la condizione necessaria – non sempre sufficiente – per sottrarsi rispetto a un presente avvisato come perturbante.
Rispetto al silenzio del primo tipo, questa seconda fenomenologia del silenzio, implica una trasformazione del soggetto. Come il primo, anche questo secondo tipo di silenzio è una scelta, non nasce da un’istanza coercitiva, ma gli è strutturalmente opposto: si impone come strategia non per segnare lo “scandalo della realtà”, ma per accoglierla come suprema lex. Il suo principio non è il cinismo, ma l’annullamento della propria personalità precedente e la costruzione, lenta o simultanea, di una nuova persona.
Quando si discute del silenzio nel contesto dell’Italia delle leggi razziali, in realtà si apre l’indagine su quello che è accaduto in quegli anni in termini di comportamenti, di metamorfosi della personalità. Tutto ciò non tanto per gettare uno sguardo morboso attraverso il buco della serratura nello spazio privato di ciascuno, ma per scavare nell’ intimo del rimosso lungamente coltivato. Un rimosso che può seguire dinamiche differenziate da individuo a individuo, ma che costituisce un fatto pubblico. Anzi, per esser più precisi i rimossi sono due: il silenzio di quegli anni, di coloro che allora vivevano, adulti o bambini, e quello successivo, anche molto successico, il silenzio su quegli anni coltivato in questo lungo secondo dopoguerra italiano. Questo secondo tipo di silenzio tratta di un rimosso che riguarda soprattutto noi, coloro che sono nati dopo e che siamo il risultato di un’“educazione sentimentale” fondata e formata anche su quel rimosso.
Del resto il silenzio – questo tipo di silenzio – non è senza conseguenze e di solito si paga con la produzione di una ferita, di un’ulcera, comunque con una “deformazione”. Una metamorfosi che in letteratura ha prodotto figure memorabili, da Dorian Gray a Oskar Matzerath, il nano paranoico creato da GünterGrass.
A lungo il tema della doppiezza ha popolato l’analisi del carattere di “noi italiani” e talora l’elogio della dissimulazione onesta sulla scorta del breve trattato di Torquato Accetto, Della dissimulazione onesta, intravisto come il manuale della sopravvivenza in età di burrasche di un cittadino/suddito di un potere dispotico e poliziesco.
Ma non è di questo segno il silenzio che a lungo ha circondato il vissuto di noi Italiani dopo il 1938. Quel silenzio è il segno di qualcos’altro: forse dell’indifferenza, ma soprattutto, dell’attaccamento alle cose piccole, alla dimensione del proprio cosmo casalingo, alla difesa del proprio quotidiano. Non è l’ostilità preconcetta per l’altro, ma una cosa più sottile, certo non meno sintomatica: la scelta per una medietà, comunque per un quieto vivere privo di passioni e perciò disilluso, perché costruito sulla insignificanza del dolore altrui.
Quando periodicamente la realtà, in forma brutale, torna a farsi sentire, e a imporre confronti con il malessere umano non a distanze infinite, ma alle porte di casa, spesso nella casa della porta accanto, quella del silenzio come indifferenza è una risorsa che ritorna in campo come possibile via di salvezza per non lasciarsi trasformare o interrogare dalle sgradevolezze del presente, e da un’autoanalisi sulle proprie responsabilità.
Ma comunque non è una risorsa neutra. Come nessun pasto è gratis, anch’ essa impone un prezzo. Come finemente scrive Clara Sereni in un suo breve racconto compreso in Eppure la strategia del silenzio salva nel presente, forse permette di avere un futuro, in ogni caso non lascia le persone identiche a prima. Le cambia nella loro personalità, di solito in peggio, nel senso che abbassa drasticamente le soglie della propria autoassoluzione e, contemporaneamente, innalza quelle della propria indifferenza. Ovvero: riduce il raggio d’ azione della propria responsabilità e nel contempo estende quello della presunzione della propria innocenza.
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