Storia
Viva la disobbedienza. La lunga marcia del 25 aprile come festa è iniziata ieri
Ieri sera durante “Viva il 25 aprile” la serata-evento condotta su Rai1 da Fabio Fazio in occasione del 70° anniversario della Liberazione, Teresa Vergalli, staffetta partigiana ha detto, direttamente ed efficacemente, cosa significa ribellarsi. “Perché ci siamo ribellati? Perché non ne potevano più di quelli che ci dicevano ‘Credere, obbedire, combattere’. Non volevamo credere, volevamo sapere”. Così Teresa Vergalli, staffetta partigiana, ieri sera durante “Viva il 25 aprile” la serata-evento condotta su Rai1 da Fabio Fazio in occasione del 70° anniversario della Liberazione, ha detto, direttamente ed efficacemente, cosa significa ribellarsi.
La categoria di disobbedienza non ha mai avuto molta fortuna e soprattutto non molti l’hanno rivendicata. Tuttavia, proprio quella categoria e le scelte che derivano dalla radicalità di quella decisione hanno segnato un dato rilevante, se non prevalente della Resistenza. E non solo della Resistenza. Proviamo riflettere laicamente sul significato del ’68. Il ’68 se visto sul piano politico su quello della presa del potere non solo è fallito, ma si è costruito sul falso mito della lotta armata (come possibilità di dare l’assalto al cielo) con l’esito finale che è stato davanti a noi tra anni ’70 e primi anni ’80 e poi nella memoria pubblica. Ma se visto sul piano del costume allora è proprio la categoria di disobbedienza che valorizza quell’esperienza.
La disobbedienza è forse il primo atto di riprendersi in mano la storia, di sentirsi protagonisti e non solo gregari.
Ieri a Milano, dove la dimensione di essere festa nazionale obbliga a misurare il successo e l’articolazione di una scadenza, il 25 aprile c’era tanta gente. C’era e non l’aveva chiamata in piazza qualcuno perché preoccupato del futuro o sull’onda di un’emozione di non sapere che cosa accadrà domani. A ventuno anni di distanza da quel 25 aprile 1994 in cui improvvisamente, sull’onda dell’appena eletto governo Berlusconi, sembrava che si dovesse riaprire il confronto duro sul senso del 25 aprile – ieri andare a manifestare e camminare per le vie di Milano per convergere verso Piazza Duomo non ha voluto dire “rispendersi” la città, ma ha significato viverla.
Della giornata di ieri bisogna portare a casa la sorpresa: di trovarsi in tantissimi; di pensare che forse per la prima volta, il 25 aprile non era contro, ma era “per”; non era una chiamata allarmata con la gente con gli occhi sbarrati ma si trattava di festeggiare.
Le feste, quando non sono la celebrazione della vittoria dello Stato, ma il percorso tortuoso verso la libertà alla cui origine sta l’atto di liberazione, dirompente, travolgente, spesso non di tutti (perché le rivolte di liberazione includono che qualcuno sia contro) ma per tutti hanno lunghi tempi di maturazione dopo per trovare una forma di collocarsi nella linea del tempo storico di un gruppo umano. Le feste che si fondano su atti della società civile – in cui la società civile è protagonista – impiegano molto tempo per trovare una loro forma. Forse necessitano che tutti i protagonisti, ma anche tutti gli spettatori di quell’atto, siano scomparsi.
Il 14 luglio francese non è diventata una festa nazionale se non dopo un secolo e ancora fino alla seconda guerra mondiale aveva dei problemi di accettazione. Il 4 luglio americano è diventato quello che noi conosciamo oggi solo molto tempo dopo la guerra civile americana, in altre parole un secolo dopo la rivoluzione americana. Noi non siamo un’eccezione. Ieri, forse per molti inconsapevolmente, abbiamo cominciato un percorso. Non sarà rapido, bisogna saperlo. Ma non importa. Non perdiamoci di vista.
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