Storia

Il 25 aprile 2020 non è anniversario, ma patto per il futuro

24 Aprile 2020

La parola di questo 25 aprile 2020 non è liberazione, ma riscatto.

Perché riscatto? Quella parola a volerla intendere, a volerla praticare è forse uno dei ponti tra passato storico e avvenire incerto. Perché l’appuntamento cruciale che abbiamo davanti non è cosa celebreremo il 25 aprile  (o cosa ricorderemo) ma come ripartiremo. L’hashtag di questo 25 aprile più che #liberazione è #domani.

Le piazze vuote di questo 25 aprile 2020, magari faranno risonare con maggior forza Bella ciao (con tutto l’immaginario che quella canzona evoca), ma ci consegnano un futuro che va tutto costruito e che sta completamente davanti a noi. Quel futuro, oggi, è privo di progetto. Per questo è importante sottolineare la parola riscatto.

Riscatto non è vendetta, o rabbia, o riparazione. Riscatto è la scena del giorno dopo la fine, quando ognuno deve ritrovare la via di casa e lungo quella strada si tratta di fare i bilanci, ma anche sapere che il futuro diventa possibilità solo se definito da un patto, da una voglia di non venir meno, insieme.

Il riscatto è dunque, riguarda un tempo, talvolta anche lungo. Non è solo fare qualcosa, ma è misurare nel tempo, se quella cosa è stata, se non siamo venuti meno, se ce l’abbiamo fatta.

Io credo che riscatto sia una parola a cui dobbiamo dare un peso e che forse molte più di altre è la parola di quel tempo e del nostro tempo.

A differenza di 75 anni fa, noi abbiamo ancora il nostro avversario vivo, forte, davanti a noi e non “in fuga”.  Eppure, anche così, quel confronto anziché farci percepire quel tempo come estraneo, o come lontano, evoca una ulteriore significato della parola riscatto che ha segnato quel tempo e che sarà determinate anche nel nostro tempo.

Quel riscatto viveva pochissimo della memoria di prima, vive invece moltissimo della volontà collettiva di non venir meno a un patto di ricostruzione che è determinazione a fare. Un fare che anche è conseguenza di una presa in carico di ciò che non è da ripetere, di strade da abbandonare; di nuove forme dell’agire individuale e collettivo. Di una idea rinnovata di patto civile, da sottoscrivere, per dare un nuovo corso al nostro tempo di vivere.

Un’idea di riscatto che sa di avere il proprio corpo immerso nelle strette del proprio tempo, ma che non può non pensare al tempo dopo. Senza rimpianti per prima; con una enorme nostalgia di futuro.

Rubo quest’espressione – “nostalgia del futuro” – a Vittorio Foa. Non a caso.

Ottobre 1946. L’Italia è una repubblica da pochi mesi e l’Assemblea Costituente sta scrivendo la nuova Costituzione.

Vittorio Foa nel momento in cui la democrazia politica in forma incerta stabilisce e si dà le prime regole di società aperta mette in guardia dal ritenere che la democrazia sia solo regole. Democrazia è partecipazione, sostiene (il testo dal titolo Le autonomie e le macchine politiche, si trova qui).Il suo intento non è dimostrare l’inutilità dei partiti, al contrario: è mettere in guardia dal ritenere che sia sufficiente un’offerta di partiti politici solidi, perché si dia democrazia compiuta.

Una democrazia funziona, scrive Foa, se i suoi cittadini non cessano di interessarsi delle sue sorti, se non pensano che basti una regola, se non pensano che basti la pluralità dei partiti perché il sistema funzioni. Ci vogliono gli uomini e le donne, la loro curiosità, l’ansia di sapere, la voglia di fare, la responsabilità di esserci. Perché, sostiene, la democrazia è un percorso collettivo e plurale di crescita collettiva.

Dentro a questa preoccupazione, sta un pezzo della sfida che avremo domani. Non solo in termini di libertà, ma soprattutto in termini di eguaglianza, che parta dal principio di fraternità, forse la parola più disattesa tra le tre che fondano storicamente i pilastri della modernità.

Quando usciremo nuovamente di casa non basterà chiedere di partecipare, occorrerà garantirsi di non lasciare nessuno indietro. Perché che lo si voglia o meno, che si sia disposti a valutarlo o no, questo è accaduto in questi due mesi in cui era necessario essere connessi; saper lavorare con un utilizzo non solo passivo della tecnologia, ma anche essere nella condizione di partecipare.

Questo al netto di un altro fatto che comunque preesisteva alla pandemia. Alla partecipazione consapevole e responsabile di tutta la popolazione residente non bastano le comunicazioni istituzionali, i decreti e le ordinanze, la televisione. A molti genitori dei bambini e dei ragazzi coinvolti nella didattica a distanza non bastano le abilità per un uso quotidiano dello smartphone per poterli sostenere nella nuova impresa. La crisi anche sociale ed esistenziale generata dalla pandemia richiede, soprattutto per chi vive condizioni di maggiore vulnerabilità, specifiche azioni di istruzione e di educazione.  Della vicinanza di chi più sa a chi sa di meno, di sostegni anche culturali.

In altri termini non solo “carità” (che comunque non scarterei né disprezzerei), ma consapevolezza di voler sottoscrivere un patto di futuro.

La libertà di movimento è mancata a tutti, ma la ripartenza non sarà per tutti eguale. Perché la libertà è sicuramente un bene irrinunciabile, ma senza una domanda di eguaglianza, di pari opportunità, l’effetto sarà una società a velocità diverse, con rigide divisioni orizzontali e nessuna opportunità di ascensore sociale.

Questa la scommessa del giorno dopo. Non è ancora chiaro se la vinceremo.

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