Storia
24 maggio 1915. Quando, senza saperlo, siamo entrati in un’altra storia
Il 24 maggio 1915 l’Italia scende in trincea. Cento anni dopo ci chiediamo: siamo mai usciti da quella guerra? Alessandro Colombo con il suo libro La grande trasformazione della guerra contemporaea prova a riflettere su questa questione. Lo fa, rovesciando il punto di vista, cominciando da oggi, per capire la archeologia della guerra in cui siamo immersi ora.
Dalla fine del secolo sorso secolo, il “camaleonte” della guerra ha cambiato aspetto molte volte. La guerra, da allora, non è mai tornata ad assumere le vesti di quella di cui oggi celebriamo il centenario.
Tuttavia, quella guerra, che a noi sembra così lontana nelle forme, nei modi, nelle dinamiche, parla al nostro presente. Anzi: è l’archeologia del nostro presente. Alemo da due punti di vista.
In breve:
1) E’ da quella guerra, dalla sua brutalità che discende sia il vocabolario pacifista ancora in circolazione nel nostro presnte, sia il vocabolario delle relazioni internazionali su cui abbiamo costruito il linguaggio comune della nostra idea di relazioni internazionali. Da questo doppio registro discende l’idea della delegittimazione della guerra interstauale.
2) Si espande, anche in conseguenza di quella delegittimazione, lo spazio per nuovi protagonisti della politica e della violenza. Al centro stanno soprattutto movimenti capaci di ottenere dai loro militanti la disponibilità a morire e a uccidere. Anzi a trasformare la morte in un rito, a esaltarlo a riconoscervi un tratto distintivo non solo della propria identità, ma del proprio messaggio politico e della etica del combattente che vogliono comunicare.
La questione, dunque non è esclusivamente ricordare, ma, soprattutto, avere presente che quell’evento, la Prima guerra mondiale, ci riguarda molto. Quella guerra infatti, più che dividerci sulla memoria, più che un’occasione per dichiarci fedeli a una comunità o a un gruppo, ovvero rimanendo impiantati nel 1915, esprime il primo atto di una grande trasformazione su cui vale la pena riflettere, se vogliamo comprendere qualcosa del 2015. Ovvero di chi siamo noi ora.
Alessandro Colombo sostiene che nell’ultimo secolo sono cambiate molte cose (la posta in gioco, i combattenti, lo spazio in cui si combatte, i linguaggi,..) e tuttavia questo non elimina che il nostro presente sia figlio di una lunga e profonda trasformazione che ha le sue origini e i suoi primi elementi proprio in quello scenario sconvolto di 100 anni fa.
La guerra di cui siamo i pronipoti, quella che combatterono i nostri nonni e i nostri bisnonni, è ancora la guerra di cui ogni giorno ci paerlano i media e i social network? Ha regole o non le ha? Chi la combatte e chi la subisce? Dov’è oggi il fronte della guerra? Esiste ancora una idea di fronte e una di retrovia?
Muovendo da queste domande l’obiettivo di La grande trasformazione della guerra contemporanea è, appunto, esaminare questo scostamento, a partire dalla retorica delle “nuove guerre” che ha accompagnato non casualmente la fine del Novecento già all’indomani del collasso dell’Unione sovietica.
“Asimmetriche”, “a bassa intensità”, “globali”, “infinite”, “ibride”, “a costo zero”, “ineguali”, “tra la gente”, le guerre degli ultimi venticinque anni sono apparse comunque irriducibili all’esperienza e al paradigma militare della guerra novecentesca.
Per comprendere questa differenza è essenziale risalire indietro al momento d’inizio di quella frattura quando l’esperienza della guerra cessò di essere la guerra-duello, quale ancora era l’esperienza della guerra nel corso dell’Ottocento.E’ il Novecento con la Grande guerra, afferma Colombo, a costruire il carattere totale e industriale che la guerra comincia ad avere.
Guerra totale ovvero compenetrazione di pubblico e privato, statale e sociale, pace e guerra.
Guerra industriale significa trasformazione della società in una macchina per la produzione di violenza.
La somma e la compenetrazione tra guerra totale e guerra industriale producono un terzo elemento: la disponibilità alla mobilitazione.
“Questa disponibilità – scrive Colombo – che era ciò che aveva già spinto i fanatici cattolici e protestanti a massacrarsi nel corso delle guerre civili di religione, fu ciò che mosse milioni di europei ad acclamare lo scoppio della Prima guerra mondiale nel luglio 1914 e che, dopo il disincanto prodotto dalla guerra, tornò a prendere sempre più spesso la strada della guerra civile, garantendo alla violenza novecentesca una riserva quasi illimitata di volontari, “gesuiti della guerra” – come Che Guevara definisce i partigiani – cioè portatori di una visione dell’ordine giusto e, nella stessa misura, di un’ostilità assoluta verso i propri nemici, disponibili a morire e a uccidere in nome della “buona causa” e ad accorrere non solo a difesa della propria terra ma ovunque fossero in gioco i propri valori (come i volontari repubblicani della guerra di Spagna o, sull’altro fronte, quelli spagnoli, francesi, baltici o ucraini delle Waffen SS; o come lo stesso Che Guevara, borghese argentino deciso a portare la bandiera della rivoluzione nelle campagne dell’America Latina): i più immediati progenitori, se appena si guardi oltre la fantasia gotica del “ritorno al Medioevo”, dei militanti jihadisti in mobilitazione permanente tra l’Afghanistan, l’Iraq, la Siria e la Libia”.
Quella di Colombo è un’affermazione molto forte che forse a molti può apparire impropria o, almeno, esagerata. Ma tiene conto soprattutto della metamorfosi e della fisionomia che ha assunto la dimensione del cosiddetto “combattente per la libertà” nel corso del Novecento.
Si potrebbe dire che la guerra civile è la forma più radicale della pratica della guerra e riconscere in quella guerra l’occasione più volte ripetuta nel corso del Novecento dell’esercizio della violenza estrema. E’ vero, ma non è l’unica configurazione in cui fa la sua apparizioone la violenza radicale, la violazione soddisfatta del corpo degli altri. La guerra civile da tempo non è più solo una “guerra locale”, ma è una forma della “guerra globale”. Dentro quell’esperienza sta anche l’analisi del comportamento del combattente volontario che si iscrive , da simpatizzante, per uno dei due schieramenti in lotta. e che avverte quella guerra, anche come sua.
L’esperienza del volontario nella guerra d’altri, include che si analizzino le motivazioni, le visioni politiche, ma poi conta anche che cosa implica comportarsi per davvero in quella dimensione bellica. Conta che valore si dà alla vita degli altri (oltreché alla propria, ovviamente) e soprattutto che immagine si ha della morte, della propria morte, intendo, ma quello che è ancora più importante, del dare la morte e poi del mostrarla, della felicità che si ha nel mostrare il possesso del corpo degli altri.
Si va a combattere in casa d’altri, insieme a quelli che là, a casa loro, stanno combattendo per la loro libertà, perché quel loro diritto alla rivolta è anche la testimonianza del nostro diritto alla rivolta. Si va là perché la possibilità del futuro include la scelta, e la scelta vuol dire che quel futuro, la possibilità di averne uno, non è un regalo. In ogni caso la scelta di esserci in quella lotta, racconta e testimonia che il tuo diritto, quello che percepisci e rivendichi come un diritto, non è un regalo.
Ma poi terminata l’esperienza del volontariato in terre d’altri, o della condivisione della lotta perché ci si sente parte della stessa causa, ciò che rimane è la dimensione del diritto sulla vita degli altri. Lì a mio avviso sta un discrimine che consiste nell’atto di violenza, nell’uso politico dell’atto di violenza. Ovvero se quell’atto, sul corpo degli altri, sulle cose, sui simboli, serve a confermare un dominio sugli altri a certificare chi sia il nuovo dominus, o se invece quell’atto di violenza poi torni ossessivamente, nella riflessione critica che si fa dei propri atti.
C’è un’omologia del nome del combattente per la libertà che ha subito una metamorfosi profonda e con cui è ancora complicato prendere la misura. Questa metamorfosi è parte di quel processo di grande trasformazione, non univoca, plurivocale, che si origina dalla “Grande guerra” per giungere fino a noi, qui e ora. Su questo punto, molto opportunamente insiste Alessandro Colombo.
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