Storia
24 giugno 1922: Walther Rathenau, morte di un uomo solo
Il 24 giugno 1922 Walther Rathenau – Ministro degli Esteri della Repubblica di Weimar – viene ucciso da estremisti di destra nel percorso che sta facendo in auto tra la sua casa e il suo ufficio ministeriale.
Molti non si sorprendono. Altri si congratulano. Altri infine rimangono in silenzio. Quella di Rathenau, infatti, è una morte in gran parte annunciata.
La sua morte è in relazione con il suo progetto politico, ovvero ricondurre la Germania attraverso le sanzioni a ripensare il suo modello economico, ma anche è dovuta al fatto che una parte dell’opinione pubblica tedesca non gli perdona di essere ebreo.
Benito Mussolini, in un commento che pubblica il giorno dopo l’assassinio lo indica con chiarezza.
“I circoli estremisti della destra tedesca non potevano perdonare due cose a Rathenau. Primo la sua direttiva in politica estera che consisteva nel fare tutto il possibile per adempiere agli obblighi del Trattato di Versaglia. In secondo luogo la sua origine semita. Per gli estremisti tedeschi di destra, i quali ritengono la stirpe ariana purissima, era intollerabile che un ebreo dirigesse e rappresentasse Germania in faccia al mondo” [Benito Mussolini, Rappresaglia, in “Popolo d’Italia”, 25 giugno 1922. Anche il titolo del suo editoriale è significativo].
Questo doppio aspetto rende la vicenda Rathenau singolare, ma anche ripetibile.
Singolare: perché il doppio profilo delle cause ne individua un tratto non generalizzabile.
Ripetibile: perché quello stesso doppio profilo dice che nei processi tormentati di trasformazione ciò che entra in gioco non è solo cosa sta avvenendo ma come alcuni attori costruiscono una narrazione che rende legittima un’azione.
Pierre Bayard, nel suo Come parlare di fatti che non sono mai avvenuti (Treccani) tematizza questa questione in maniera interessante sottolineando come i fatti che avvengono non si spiegano con altri fatti, ma con la verità soggettiva che riguarda non cosa accade, ma come i singoli, o i gruppi, si raccontano, e perciò interpretano, cosa starebbe accadendo, fino a determinare un comportamento.
In altre parole: la verità soggettiva, la verità presunta genera fatti, ragion per cui non è né sufficiente, né efficace smontare una credenza, ma occorre trovare contenuti capaci di riportare sotto controllo le ansie che si generano.
Questo aspetto rende saliente tornare a riflettere sulla vicenda dell’assassinio di Rathenau, forse prestando attenzione non tanto all’assassinato, quanto agli assassini e di cui una traccia è data da I proscritti di Ernst von Salomon, che rappresenta la raffigurazione dell’esperienza storica ed esistenziale di quella generazione che esce dalla prima guerra mondiale e che sente traditi i suoi ideali, teme la perdita dell’anima della Germania, si impegna nel contrastare on l’uso delle armi la sinistra. È tra quelle fila che stanno gli assassini di Rosa Luxemburg e di Karl Liebknecht a Berlino nel gennaio 1919, che non abbandonano le armi neppure dopo e che nel 1922 torna a colpire con l’uccisione di Rathenau (von Salomon partecipa all’organizzazione dell’attentato).
In questo senso I proscritti inaugura un genere letterario che è anche un modello di discorso politico che ritroveremo nella storia delle generazioni politiche del ‘900: nel momento in cui ripercorrono il proprio apprendistato politico danno consistenza appunto a quella dimensione di verità soggettiva che ne determina l’azione.
Un aspetto che esprime il carattere esemplare del testo di von Salomon in cui spesso chi lo recupera è perché sta tentando fare conti con la sua personale condizione. Accade così a Giaime Pintor, quando nel 1943 cura la prima edizione italiana per Einaudi de I proscritti.
«La domanda a cui sta tentando di rispondere – ha osservato Luisa Mangoni – non è l’identificazione con il contenuto, ma con una condizione. Ovvero la sconfitta e «dolorosa autobiografia della generazione di mezzo», quella nata tra il 1910 e il 1920, la “generazione perduta”: temuta ed esorcizzata».
E lo stesso accade nei molti che successivamente sono tornati ad interrogare Giaime Pintor. Quel tuffo nella sua personalità, avviene – scrive Mangoni «sempre in momenti cruciali della storia della cultura e della politica italiane, come alludere a un confronto tuttora necessario, alla opportunità di tener conto anche di quella voce in periodi di ripensamento o di crisi» [Luisa Mangoni].
A proposito de I proscritti di Von Salomon aveva scritto Giaime Pintor nel 1943 [quel testo esce postumo sulla rivista “La Nuova Europa” nel dicembre 1944, a un anno dalla sua morte]:
«Altrove questa eloquenza si gonfia di un pathos polemico, quando è rivolta al mondo circostante dei bonzi e dei politicanti di mestiere, e crea quadri di un vigoroso rilievo. Ma non per questo bisogna considerare Salomon uno scrittore da antologia. La sua importanza è altrove, è nell’avere tentato un genere di narrativa documentaria di cui oggi gli scrittori americani, Hemingway alla testa, ci mostrano le ragioni profonde. Alla tendenza tutta introvertita della più recente narrativa europea questa letteratura contrappone una violenta «contaminatio» col cinematografo e col giornalismo, ma soprattutto rivendica allo scrittore, all’uomo di cultura, il diritto di discutere apertamente i presupposti della condizione umana. Libri come Im Westen nichts Neues di Remarque, L’espoir di Malraux o il recente The Moon is Down di Steinbeck sacrificano palesemente i problemi di stile a una fedeltà giornalistica umile e polemica insieme. In questo senso I proscritti è uno dei pezzi centrali di un documentario costruito con le testimonianze di tutti i partiti e di tutte le scuole e dotato per noi di un valore essenziale, perché illumina meglio di ogni testo di storia il destino di un’epoca in cui la tolleranza doveva diventare una colpa e la morte fisica scendere con inaudita violenza su intere generazioni. Se questo ciclo parossistico sia per concludersi noi non possiamo dire. Certo oggi, all’avvicinarsi della fine di un’altra guerra mondiale, la fucilata dei proscritti suona come un’eco sinistra all’orecchio dei cittadini d’Europa, e chiama ancora una volta a raccolta le forze più segrete che difendono la nostra civiltà».
Ha scritto Marco Revelli nel 1994 [ora in I proscritti, p. 483] che quando fu pubblicato questo articolo di Pintor dedicato a von Salomon
«… sembrò in qualche modo l’epitaffio per una giovane vita lacerata da quella stessa violenza assoluta. Ma il giudizio in esso contenuto rimane tuttora attuale. I proscritti continua a rappresentare un documento di inaudita efficacia non solo sullo svolgimento dell’Europa entre deux guerres, ma su ogni luogo e su ogni tempo in cui la superficie sottile della civilizzazione si incrini, e nella dissoluzione di tutti i valori lasci riemergere la sostanza magmatica di una temporalità non conciliata, sia essa la Germania di Hitler di ieri o la Russia post-comunista di domani o l’arroventata crisi balcanica di oggi: ovunque nelle sconnessioni di un tempo parossisticamente accelerato si riaffacci l’angoscia di un mondo perduto, l’horror vacui dello sradicamento e la dissoluzione, lì i «proscritti» di von Salomon tornano a irrompere e a testimoniare della stessa elementare furia distruttrice di allora».
Al netto dei luoghi di crisi evocati da Revelli (Russia post-comunista o Balcani; forse oggi nomineremo anche altri luoghi) il tema continua a rimanere sul tavolo per chi voglia non trovarsi a rivivere, nel proprio tempo, la scena del 24 giugno 1922.
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