Storia

2 luglio 1991: in Slovenia scoppiava la prima guerra dei Balcani

1 Luglio 2021

(Foto di copertina di Giovanni Montenero)
Il 2 luglio 1991, esattamente trent’anni fa, ho assistito alla “battaglia di Fernetti” tra territoriali sloveni e la Jna (Jugoslovenska narodna armija, Armata popolare Jugoslava). È stato il mio “battesimo del fuoco”, come si diceva una volta, ma, diciamolo subito, del tutto incruento: il bilancio di un pomeriggio e di una serata di intense sparatorie – a un certo punto sono entrate in azione pure le artiglierie dei carri – è stato un ferito leggero, un soldato jugoslavo portato in ambulanza e curato nell’ospedale di Trieste (mi viene da pensare cosa succederebbe adesso, tra «kuanto ci kosta» e «prima gli italiani»).

La guerra di Slovenia, primo tra i conflitti che dilaniarono per dieci anni i Balcani, scoppia il 27 giugno 1991, con teatro l’aeroporto di Lubiana, a Brnik. L’Armata federale si posiziona sui valichi confinari, per isolare la Slovenia dal resto del mondo (riuscendoci solo parzialmente): presto vengono coinvolti anche i valichi confinari con l’Italia, Gorizia, prima di tutto, dove si accende una battaglia di carri armati al valico della Casa Rossa, ma poi anche Trieste. Al tempo lavoravo in un quotidiano che si chiamava “TriesteOggi” (non esiste più) dove coprivo la politica cittadina, ovvero seguivo noiosissimi consigli comunali e le conferenze stampa del “Melone”, una sorta di Lega ante litteram in salsa triestina, cioè venata di nazionalismo antislavo, poi dissoltosi tra Psi e Forza Italia.

Scoppia la guerra. Difficile percepire il senso delle distanze per chi non conosca la zona, ma tra piazza dell’Unità d’Italia, cuore di Trieste, e il valico confinario di Rabuiese, ci sono 15 chilometri, 20 minuti di auto. La redazione del mio giornale, poi, si trovava a metà strada, per cui tra la mia scrivania e i carri armati con la stella rossa i chilometri erano solo 6. Ero corrispondente da Trieste per l’“Avvenire” e l’ancora montanelliano “Giornale” e facevo l’inviato di guerra in pausa pranzo. Al mattino facevo il “giro di bianca” (mi affacciavo in vari uffici chiedendo quali novità ci fossero e ricevevo l’invariabile risposta che non ce n’erano), quindi arrivavo in redazione, riferivo al capo di turno e poi, invece di andare a pranzo con i colleghi, prendevo l’auto, mia o del fotografo Giovanni Montenero (oggi all’ufficio stampa della Regione Friuli Venezia Giulia), un altro che non aveva tutti i venerdì al loro posto, e andavamo a farci un giro.

Avevo accennato al fatto che i confini erano chiusi, ma non tutti i valichi erano sigillati, attraverso alcuni si passava. Quindi uscivamo per il valico di Lazzaretto di Muggia, in riva al mare, dove sembrava che nulla stesse succedendo, e rientravamo per quello di Lipizza/Basovizza, presidiato da un vecchio carro T55 della Jna. Una trentina di chilometri tra l’Adriatico e il Carso per poter dire «siamo stati in guerra», ma dove in realtà succedeva assai poco. Scrivevo quei pezzi che in gergo vengono definiti “di colore”: ambiente e sensazioni, ma sostanza niente.

Martedì 2 luglio, però, le cose prendono una piega diversa. Giovanni Montenero e io passiamo per Sežana, dove incontriamo il collega Marjan Kemperle, del “Primorski Dnevnik”. Si tratta del quotidiano di Trieste in lingua slovena e quindi il giornalista era perfettamente in grado di comunicare con i territoriali sloveni. Ci dice: «State qua». Aveva saputo che gli sloveni stavano per attaccare il valico confinario di Fernetti per cercare di prenderselo. Un valico importante, quello: chiunque sia andato verso Lubiana in autostrada l’ha attraversato.

Ci dirigiamo verso la sede della società “Marmor”, proprietaria di cave di pietra, sentiamo i primi colpi di armi leggere, qualche proiettile sibila alto sopra le nostre teste (eravamo dentro una sorta di avvallamento), gli sloveni ci fanno segno di ripararsi e ci fanno entrare negli uffici della società. Sono circa le tre del pomeriggio. Lì c’è un telefono, preziosissimo nell’era pre cellulari: chiamo la redazione a Trieste, li sento un po’ perplessi, dovevo scrivere un pezzo di cronaca, non certo mettermi a fare l’inviato di guerra della mutua. I colpi secchi che si odono attraverso la cornetta, basta a convincerli. Poi chiamo anche Milano per comunicare: «Guardate che qua si tirano». Per molti anni, passando per di là, mi sono domandato quali bollette telefoniche si sia ritrovata a pagare la “Marmor” dopo quel pomeriggio: anche se erano pochi chilometri soltanto si trattava pur sempre di chiamate internazionali. Rimaniamo per un paio d’ore, la battaglia di Fernetti si può riassumere con «molto rumore per nulla»: si sparano come matti, ma non succede niente.

Chiunque abbia lavorato in un giornale sa che non esistono guerre, pandemie e terremoti che non debbano sottostare alla ferrea regola della chiusura: a un certo punto bisogna scrivere perché il giornale deve chiudere. Marjan Kemperle rimane lì, Giovanni Montenero e io ci allontaniamo, saliamo in auto e torniamo in redazione: una mezz’oretta separa la linea del fuoco dal solito tran tran. Il giorno dopo uscirà una doppia pagina dalle molte e belle foto e con la consolazione che sangue, in quei frangenti, non se n’era versato.

Come si fa a resistere alla tentazione di tornare sui luoghi dove i fatti accadono? Non si resiste. Infatti la sera, dopo la chiusura, era ormai buio, assieme al collega Giuliano Sadar (oggi alla Rai di Trieste) andiamo verso Fernetti, ma dalla parte italiana. Poco dopo Opicina ci fermano a un posto di blocco. Ricordo lucidamente alcuni finanzieri molto, ma molto nervosi: «Fermi! Tornate indietro! Siete impazziti? C’è la guerra là». Al che ho ribattuto col massimo aplomb: «Lo so. Qualche ora fa ero dall’altra parte». L’affermazione non è stata apprezzata.

Comunque Giuliano e io ci sediamo sul parapetto di un cavalcavia poco prima del posto di blocco e stiamo un po’ lì a vedere che succede. Niente di che. Ogni tanto si sentono le sirene di qualche ambulanza (che, come detto, corrono a vuoto, per fortuna), ogni tanto qualche botto più forte, probabilmente artiglieria, il campo al di là del cavalcavia viene attraversato dalle scie arancioni di due traccianti. Dopo un po’, è piuttosto tardi, ce ne andiamo e, naturalmente, ci perdiamo il più bello: a notte fonda sparano i carri armati: vampe, luci, botti, ci viene riferito il giorno successivo da uno dei grafici del giornale che vive a Opicina. Comunque, la battaglia di Fernetti finisce prima dell’alba del 3 luglio, senza particolari conseguenze.

 

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