Storia
2 giugno 1946. L’inizio di una storia
Federico Fornaro ripercorre il processo che tra crisi del regime fascista (segnato dal passaggio che si consuma il 25 luglio 1943 con la caduta del governo e poi con l’arresto di Mussolini) e poi la resistenza, quindi il Governo guidato da Ferruccio Parri e poi con il primo governo de Gasperi, conduce l’Italia, il 2 giugno 1946, al referendum e alla vittoria, della repubblica sulla monarchia. Vittoria, peraltro, incerta e a lungo contestata.
Processo lungo. Più che nel tempo, nelle molte trasformazioni che si accavallano in quel triennio.
Nell’ordine: la fine dell’esperienza dittatoriale; i giorni incerti dell’intermezzo segnato dai quarantacinque giorni; l’inizio vero della Resistenza sia nella versione di “guerra di liberazione nazionale” che di “guerra civile”, che di “guerra di classe”, in breve i venti mesi delle “tre guerre”, come ha indicato correttamente molti anni fa Claudio Pavone in un libro che ancora oggi resta imprescindibile se si vuol comprendere i molti nodi – sia quelli poi sciolti, sia quelli in gran parte irrisolti che si consegnano all’Italia del dopoguerra; quindi il governo Parri, la crisi e la disillusione di un’Italia che si voleva nuova (magistralmente restituita da Carlo Levi nel suo l’Orologio), poi i mesi che conducono al referendum.
Processo interessante che Fornaro ricostruisce con attenzione e pazienza portandoci fino a quella data che per molti aspetti costituisce uno snodo: tra chi la individua come l’ultimo atto di un percorso e chi invece ritiene che lì si consumi un rito di passaggio che mantiene cose del passato, ma anche nasca una «nuova storia» con molte cose irrisolte e sospese.
Prima di tutto gli attori: la monarchia, e l’apparato che si muove intorno a Vittorio Emanuele III. Poi l’inizio incerto del movimento resistenziale, ma anche gli antifascisti che lentamente escono dalle carceri (significative sono le parole di Vittorio Foa, nella lettera che scrive il 2 agosto 1943 alla famiglia denunciando ancora la sua permanenza in carcere, mentre nota con sarcasmo che gli “ultimi arrivati” sono i primi a uscire; poi l’8 settembre, ma soprattutto la fuga del re e verso il Sud, quindi l’inizio della resistenza, le riflessioni di Benedetto Croce, non antimonarchico, ma consapevole che il futuro della monarchia sia possibile solo con l’uscita di scena di Vittorio Emanuele III (un’uscita che si concretizzerà con lentezza a tappe tra l’aprile 1944 e il maggio 1946, comunque troppo tardi) e poi soprattutto il confronto tra le forze politiche che fanno del passaggio istituzionale uno dei punti che marcano la volontà reale di andare oltre la vicenda del fascismo.
Un insieme di passaggi dove entrano in gioco nuovi attori (i partiti politici ,prima di tutto e, tra questi, Palmiro Togliatti e il Pci) dove la politica improvvisamente cessa di essere solo «astuzia» [è significativo che alla vigilia del 25 luglio, riesca Della dissimulazione onesta di Torquato Accetto e che ne scriva su “Il Primato” Carlo Muscetta] e si misuri con la necessità di rappresentare la novità; che la domanda dal basso di cambiamento si incontri anche con la richiesta di stabilità; che la voglia di voltare pagina, coabiti con le incertezze del nuovo capitolo che va aprendosi.
Uno stato d’animo complessivamente incerto e mutevole che Giaime Pintor fotografa con precisione nelle sue riflessioni sull’Italia del dopo 25 luglio 1943.
Ma soprattutto il passaggio lento e impervio che tra inverno 1945 e inverno 1946 consente che la questione istituzionale non sia un optional o una possibilità incerta, comunque un’ipotesi vaga – evocata ma non perseguita – ma divenga un punto di passaggio essenziale.
Processo che riguarda molti attori in campo che si pongono il problema non solo di quale regime fondare e se sottoporre quella scelta a referendum, ma anche come coinvolgere il cittadino, un soggetto che esce dalla dittatura e che ha formalmente perso il diritto di voto dal 1939, al momento della costruzione della Camera dei fasci e delle corporazioni, anche se da molto più tempo ha perso la libertà di voto (almeno dal 1928).
In quella scelta e in quel profilo la svolta istituzionale e referendaria appare a molti quel passaggio capace di consentire non solo la rifondazione e l’affermazione della democrazia in Italia, ma anche di dichiarare che il ripristino della democrazia non è il ritorno all’Italia prefascista. Più esplicitamente: il referendum vuol dire non considerare il regime fascista una parentesi.
Così per esempio sostiene Ferruccio Parri, in quel momento capo del governo, il 26 settembre 1945 all’ apertura dei lavori della Consulta quando dice:
«Non possiamo volere che si perda quel non molto che la lotta antifascista ha dato a tutti noi, ha dato a tutti i partiti della nostra coalizione. Non vogliamo, non possiamo volere che a grado a grado, uno per uno, ci si impantani, ci si invischi, ci si soffochi, ne che si debba ritornare a regimi di letargo o a regimi senza libertà e quindi senza giustizia».
Dunque alla fine si potrebbe dire quel processo ha avuto un esito.
Sì e no, mi verrebbe da rispondere, comunque quell’esito non è scontato e non è automatico. È «aperto» e, soprattutto, non è automatico.
Provo a spiegare perché no e perché, anche in conseguenza di questo, ritornare oggi a considerare le tappe che portano a quell’esito è, prima ancora che una questione di storia, un’operazione di educazione civica.
Il 2 giugno è una data che ha stentato – e ancora oggi stenta – a individuare una fisionomia propria. A lungo schiacciata alternativamente o complementarmente sul rituale del 25 aprile (in nome di una condivisione del concetto di scelta, di frattura della società italiana da cui indubitabilmente trae origine la Repubblica) o sul 4 novembre come festa delle Forze Armate (in cui ritorna l’immagine e il ricordo della vittoria sul nemico caratterizzandosi per un aspetto più accentuato nazionalismo), quella data sembra maggiormente legata all’immagine ultima di un ciclo che la precede (e dunque neutralizzandone il carattere di “scelta” conflittuale), più che segnare simbolicamente l’avvio di un nuovo ciclo.
La festa del 2 giugno è un a festa fredda nel panorama collettivo. La figura del Presidente della Repubblica è invece oggi, a differenza di altri tempi, un punto di equilibrio essenziale nel panorama politico italiano. C’è contraddizione in tutto ciò? Certamente sì.
Da due punti di vista:
1) significa che affidiamo al Presidente della Repubblica un ruolo eccessivamente personalizzato;
2) non si è consolidata una cultura repubblicana.
Forse il primo punto ci sembra il più ricco di instabilità. In realtà è il secondo punto ad esprimere un tasso più alto di problematicità.
Forse il 2 giugno è intravisto come la data che rende omaggio a una figura, il Presidente della Repubblica, anzi più precisamente a questo Presidente della Repubblica avvertita come garante di un equilibrio in un’epoca molto incerta e turbolenta.
Ma anche così il problema anziché trovare una soluzione si complica ulteriormente, dimostrando peraltro il vero problema che oggi noi abbiamo di fronte: il rapporto complicato con la politica. Rapporto troppo dipendente dalle persone e invece blando, comunque tenue, con le istituzioni. Il che accentua il carattere di crisi della democrazia che noi attraversiamo.
Quando il prossimo mercoledì festeggeremo i 75 anni della Repubblica che cosa festeggeremo realmente? La nascita di un sistema politico cui sentiamo ancora oggi di aderire? Forse, anche se sarebbe interessante andare oltre la forma.
Per esempio: la Repubblica italiana fu fondata da partiti politici scomparsi da tempo e di cui nessuno, almeno per ora sente particolarmente la nostalgia, comunque il senso comune è che “meno male”. Davvero senza quegli attori politici – che non erano solo persone, ma blocchi di idee, alcune delle quali oggi riteniamo o, almeno, molti ritengono che ce ne siamo liberati – noi avremmo avuto un sistema politico democratico? Ne dubito.
Oppure rifletteremo su un sistema di valori? Anche su questo mi sembra che ci sia incertezza. Soprattutto, e qui mi sembra che l’incertezza, e anche il tasso di confusione sia più alto. Provo a spiegarmi a partire dalla parola libertà e dalla differenza tra idea liberale di libertà e idea repubblicana di libertà.
Con “Libertà liberale” si intende, una libertà che limita si limita a stabilire poche regole al fine di invadere, o di invadere il meno possibile la sfera dell’individuo.
Diversamente la “Libertà repubblicana”. La libertà per i repubblicani (nel senso anglosassone del termine) è non essere sottoposti alla volontà arbitraria di qualcun altro.
L’ideale repubblicano è predisporre un sistema di tutela in grado di eliminare, ora e domani, la possibilità di subire arbitrio. Per i liberali la libertà è garantirsi possibilità di azione senza una legge limitante.
In breve: a differenza dei sostenitori dello slogan “meno Stato”, la legge per l’ideale repubblicano non costituisce un’interferenza che limita la libertà. La legge è il riconoscimento di un diritto.
Siamo così certi che questo sia un dato acquisito in Italia? O che quel dato sia parte del senso comune? Per esempio: l’articolo 3 della Costituzione –“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali” – su cui in Costituente, per esempio da parte di Teresa Mattei ci fu una polemica e una battaglia, è così estraneo a questa distinzione?
In ogni caso questo aspetto non è ininfluente nello stato di salute delle libertà così com’è oggi.
Provo a fare un esempio che forse, contribuisce a rimettere in questione l’immagine del 2 giugno se momento finale di un percorso, o momento di apertura, peraltro ancora incerta, di nuovi tempi del diritto.
Il 2 giugno 1946 fu la prima volta in cui le donne in Italia ebbero il diritto di voto ed esercitarono quel loro diritto. Andarono in massa a votare. Non era solo l’emozione della prima volta, era anche la sensazione che forse si cessava di essere cose, e si cominciava ad essere persone.
Comunque non fu facile. Anche solo il diritto al voto.
Fu talmente complicato acquisire e intendere con completezza quel diritto che il legislatore dovette intervenire due volte. La prima volta l’1 febbraio 1945, con il decreto n. 23 del Governo di Liberazione Nazionale, che dà alle donne italiane il diritto di voto. Ma non è sufficiente, perché alle soglie della prima volta dell’esercizio di quel diritto fondamentale (le elezioni amministrative di marzo-aprile 1946) qualcuno si accorge che quel diritto è solo «a metà» perché alle donne è stato dato il diritto di votare, ma non quello di essere elette e, dunque il legislatore interviene in “zona Cesarini” per riconoscere alle donne anche il diritto di voto passivo.
Finalmente parità, dunque?
Ne dubito. Le donne elette alla Costituente furono in tutto 21 ed è significativo che al netto delle appartenenze politiche si trovarono a fare una difesa e una tutela dei diritti delle donne in un’assemblea che non aveva molte intenzioni di affrontare quella tematica, comunque che aveva molte «resistenze».
Le elezioni per la costituente saranno una prova ulteriore di come un diritto acquisito poi non significhi la fine delle disuguaglianze, ma rappresenti solo l’inizio di un percorso. Appunto una libertà repubblicana e non una libertà liberale.
Un esempio? Si consideri la sfera del lavoro. È solo nel 1970, con lo statuto dei lavoratori che (articolo 15) si affronta il tema delle discriminazioni.
E ancora occorre attendere sette anni, siamo nel 1977, perché Tina Anselmi (primo ministro del lavoro donna) vari una legge (903/1977) che dia disposizioni per sancire parità di trattamento, divieto di discriminazione nell’accesso al lavoro, nella formazione professionale, nelle retribuzioni e nell’attribuzione di qualifiche professionali tra uomo e donna.
Ma ancora non è finita.
Occorrerà ancora attendere 35 anni (legge 23 novembre 2012, n.215) perché sia posto il tema del riequilibrio delle rappresentanze di genere nei consigli e nelle giunte degli enti locali e nei consigli regionali. Ed è un tappo in un recipiente ancora pieno di falle, di storture, comunque di vizi di procedura, di norme, che si trascinano dietro discriminazioni, diversità di trattamento, che si originano da pregiudizi.
Il percorso continua…
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