Storia
1961-2021: il processo Eichmann, 60 anni dopo
Sessanta anno dopo l’inizio del processo Eichmann, a telecamere spente e anniversario consumato, credo sia importante chiedersi cosa sia rimasto di quella scena.
Una volta Roland Barthes ha scritto che perché l’orrore sia comunicabile fotograficamente, occorre che non ci sia elaborazione da parte del fotografo. La fotografia-choc non chiede al suo spettatore di essere elaborata, ma solo vista. Perché la fotografia possa essere e rappresentare una condizione di choc deve esserci lo scatto di un attimo che non deve essere unico, ma esemplare e dunque stare dentro una serialità e una sequenza temporale, non proporsi eccentricamente. In un qualche modo deve esprimersi una naturalezza che “obbliga lo spettatore a una interrogazione violenta, lo impegna sulla via di un giudizio che egli stesso elabora senza essere intralciato dalla presenza demiurgica del fotografo” (Miti d’oggi, p. 104).
A suo modo la scena del processo Eichmann – una scena dove ogni volta nelle immagini in movimento che si sono conservate vediamo sempre concentrati su una singola figura (alternativamente l’imputato; il procuratore generale, il giudice, gli uomini e le donne che di volta in volta testimoniano/raccontano/ricordano) – è una continua replica di questo principio.
Si è molto parlato in questi giorni – complice il 60° anniversario dell’apertura del processo – di quella scena.
Noi possiamo definire il processo Eichmann il primo fenomeno mediatico in cui il confronto con la storia cessa di essere pedagogico per divenire civile. Tra Eichmann e chiunque in quell’ aula di tribunale stava una cabina di vetro. Eichmann era già un fenomeno televisivo anche per quello spettatore che fisicamente si fosse trovato in quell’ aula di tribunale.
Tuttavia non è questo ciò che conta, o almeno questa può apparire una questione di dettaglio, al più una mera teatralizzazione. Con il processo Eichmann l’evento storico si trasforma in memoria del trauma. In quell’ aula non entrano e parlano solo i sopravvissuti, ma anche, e comunque in loro vece, spesso intervengono i figli dei sopravvissuti, secondo una dinamica che poi si è ripetuta altre volte.
Il Novecento per quanto possa apparirci un secolo breve, un secolo che ha consumato, prima ancora di concludersi cronologicamente, tutte le proprie energie e la propria forza creativa è in realtà un secolo lungo perché riscrive le forme attraverso le quali si trasmette memoria e si costruisce consapevolezza storica.
Scriveva Marc Bloch nel suo Apologia della storia che nella storia esistono generazioni lunghe e generazioni corte. Generazioni che rimangono legate ad un evento che segna lungamente la storia e generazioni che si riflettono in un avvenimento che presto si dissolve e la loro memoria è mangiata con la sua stessa eclissi.
La generazione in questo senso non è una classe di età, ma si fonda in relazione a un accadimento che ne definisce contorni, immaginario, pensieri, angosce, incubi, emozioni, parole e, forse prevalentemente, silenzi.
Il processo Eichmann è la dimostrazione che una generazione è segnata non dall’ età, ma da un trauma. E che questo non chiude un’epoca ma pone il problema di come si trasmette una memoria e si conserva una riflessione per la storia. Ovvero come si trasforma una generazione, che non rappresenta se non una fase relativamente breve, in una fase più lunga.
Le fasi più lunghe di solito si chiamano civiltà. Quella che si inaugura con il processo Eichmann, è quella che ha per fondamento la ricerca quanto mai impervia e l’impegno per l’affermazione dei diritti. A partire dal fatto che il risarcimento del torto non è né monetizzabile, né risolvibile per via burocratica, ma avviene per riti di passaggio, attraverso i quali ogni generazione, racconta a se stessa i luoghi e i crocevia della propria vicenda e colloca dei segnalibri.
Poi ogni volta si tratta di capire quanto quel segno, quella pagina, sia in grado di congiungere presente con passato e con progetto di futuro. O se, invece, qualcosa non si stia perdendo o smarrendo. Non solo della scena del passato, ma anche del progetto di futuro.
In questo secondo caso dubito che serva ripetere la storia o ritornare sui luoghi fondativi della memoria. Serve comprendere cosa si è consumato di quella storia; quale trasformazione ha avuto una memoria; che cosa ha smarrito; che cosa ha selezionato; quale ordine ha fatto rimescolando ricordo e oblio.
Ovvero quale sia la condizione di produzione di memoria nel tempo attuale: quali fonti usa; quali procedure adotta; quali parole ripete; quale immagine-choc sceglie o assume. E se quella immagine consenta e, se sì come, a alla «memoria di prima» a ritrovare un ordine e a parlare con la memoria che sta prendendo forma o con la galleria di immagini-choc (non solo più fotografie) che stanno dando forma a una nuova memoria.
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