Russia
1945, I prigionieri italiani tornano dall’Unione Sovietica
Il rientro dei prigionieri, ed in particolare dei reduci dai campi russi dove erano presenti superstiti dell’ARMIR sia ex IMI (italiani internati nei lager nazisti) fu uno dei problemi più complicati che le autorità italiane del dopoguerra dovettero affrontare e non solo per problemi di logistica ma soprattutto per problemi politici.
I prigionieri avevano infatti sperimentato le difficoltà del mondo sovietico e avevano potuto vedere – da vicino – la condizione di miseria e di sottomissione alla macchina poliziesca del regime in viveva il popolo russo, condizioni che raccontate alla gente potevano creare forte imbarazzo al partito comunista e incidere sul suo seguito elettorale in vista delle prime elezioni politiche e della partita per determinare l’assetto politico e istituzionale italiano del dopoguerra.
Non meraviglia, dunque, che quando fu comunicata, ad una delegazione sindacale guidata da Giuseppe Di Vittorio e giunta a Mosca nell’agosto del 1945, la decisione dell’URSS di avviare i rimpatri dei prigionieri italiani, piuttosto che congratularsi con le autorità sovietiche, i delegati si mostrarono sconvolti.
“Dobbiamo essere pronti – disse Palmiro Togliatti in un colloquio che l’ambasciatore sovietico Michail Kostylev fa registrare – ad opporci alla campagna antisovietica della destra e degli elementi postfascisti” e, qualche giorno dopo, aggiunge “la destra sta preparando una nuova campagna antisovietica con il pretesto del trattamento barbarico dei prigionieri italiani in Russia”.
Togliatti avrebbe, infatti, voluto che le autorità sovietiche ripensassero la loro decisione e, in conseguenza di tale ripensamento, rinviassero il rilascio.
Ma, come è noto, difficilmente Stalin dopo vere preso una decisione, tornava indietro, anche perché le autorità sovietiche non intendevano sostenere oltre i costi della gestione dei prigionieri.
A settembre, infatti, inizia il rilascio e l’unica concessione a Togliatti fu il ritardo del rientro degli ufficiali, cioè di coloro che per formazione culturale erano meglio in grado di rappresentare il disastro del mondo comunista che avevano sperimentato nei lunghi mesi di prigionia.
Il timore espresso dal segretario del PCI e dalla dirigenza comunista apparve abbastanza fondato, gli uomini che tornavano dai campi di detenzione negli spazi del mondo comunista erano infatti in condizioni pietose poco compatibili con le prescrizioni della convenzione di Ginevra.
Le perplessità di Togliatti, dunque, venivano palesemente confermate. Alla segreteria del partito, nei giorni successivi agli al rientro dei prigionieri, arrivarono, infatti, migliaia di lettere nelle quali si accusavano i comunisti di avere contribuito a tenere nascoste le grandi sofferenze patite dai propri connazionali durante la detenzione in URSS.
E qui, con estremo cinismo, ancora una volta intervenne Togliatti pregando le autorità sovietiche almeno di rallentare il rilascio dei prigionieri fino all’elezioni per l’Assemblea costituente e il referendum istituzionale.
L’appello del segretario del Pci fu alla fine accolto dai sovietici che rallentarono il rilascio e, a quelli rilasciati, fecero compiere dei lunghissimi viaggi che durarono perfino mesi prima di raggiungere la madrepatria.
Per la cronaca, il tema dei prigionieri di guerra in Unione Sovietica e del trattamento che ad essi era stato riservato dalle autorità comuniste tornerà alla ribalta nel 1948 e ne costituirà motivo di scontro nella campagna elettorale che decise da che parte volevano stare gli italiani.
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