Storia
16 ottobre 1943. Domande alla storia
16 ottobre 1943.
Davanti al Portico D’Ottavia a Roma, una fila di camion scuri, irrompe alle prime luci dell’alba nel cuore del ghetto ebraico. Agli ordini di ufficiali della Gestapo, una schiera di soldati si dirama tra i vicoli e nelle palazzine con l’ordine di prelevare tutti gli ebrei che trovano lì. Poi anche grazie agli elenchi «gentilmente» forniti dai fascisti dai funzionari della Repubblica Sociale italiana – il regime collaborazionista guidato da Benito Mussolini – si spostano per tutta la città. Vanno a colpo sicuro. Quegli elenchi forniscono tutti i dati: componenti della famiglia, via, numero civico, piano di abitazione.
Quegli elenchi sono il risultato dei censimenti avviati con la legislazione razziale dell’ottobre 1938. Senza quegli elenchi l’operazione avrebbe avuto un’incidenza molto più contenuta.
Alla fine dell’operazione, alle 14 di quel 16 ottobre (l’operazione era iniziata alle 05.30 del mattino, secondo il rapporto steso dal Comandante Herbert Kappler) sono catturate 1259 persone (rispettivamente: 363 uomini;689 donne; 207 bambini).
Tutti sono provvisoriamente collocati nei locali del Collegio Militare di palazzo Salviati, all’angolo fra Via della Lungara e piazza Della Rovere, poco lontano dal carcere di Regina Coeli, a poche centinaia di metri dal Vaticano.
Il reparto di Waffen SS che compie l’operazione, comandato da Theo Danneker, composto di 14 ufficiali e sottufficiali e 30 militi. A questo nucleo si uniscono anche reparti di polizia italiani. Nella preparazione dell’operazione, Danneker si giova anche della collaborazione dei funzionari di polizia italiana Gennaro Cappa e Raffaele Alianello e delle loro squadre speciali.
La storia del 16 ottobre 1943 è stata raccontata molte volte in questi decenni. Intorno a quella scena si sono prodotti film, docufilm, testi di storia, racconti di narrativa. Ma resta ancora un terreno ampio di non detto. Quel terreno ampio è costituito dalle soglie culturali che ancora non siamo in grado di oltrepassare.
Mi soffermo su un dato che credo sia esemplificativo delle molte incertezze che ancora ci caratterizzano. Quel dato chiama in causa il ruolo della ricerca storica e degli storici, ovvero quello che credo sia anche il mio mestiere.
La recente discussione sul profilo politico di Pio XII negli anni della Seconda guerra Mondiale e soprattutto il recente convegno che si è svolto a Roma anche in conseguenza dei documenti della segreteria vaticana nel tempo della seconda guerra mondiale desecretati nel marzo 2020 hanno riaperto la questione del comportamento di Pio XII nel tempo della Shoah riproponendo due leggende di segno opposto – da una parte chi tende soprattutto a sottolineare l’aiuto dato da Pio XII e dalla Chiesa agli ebrei nel corso della persecuzione nazista, e alla luce di quell’aiuto ne valuta la posizione; la seconda che interpreta i silenzi come complicità. Una dinamica che conferma una difficoltà della storiografia a misurarsi con quella dimensione dell’assenza di parola rappresentata dal silenzio.
Quella del silenzio come categoria storiografica – in cui è rilevante l’analisi delle pratiche o del vocabolario che si usa per alludere o eludere le questioni – è tornata in ambito di ricerca storica a proposito delle lingue doppie della clandestinità, della dissimulazione o della costruzione retorica in tempi di persecuzione da parte dei perseguitati o dei «vigilati speciali» (per esempio le figure dei marginali o degli inquisiti, o dei marrani).
Il silenzio della Chiesa credo che vada affrontato con molte competenze disciplinari. Non riguarda solo una storia disvelata dai documenti, ma coinvolge le culture, la costruzione e le procedure con cui si definiscono convinzioni, immaginari. Riguarda la storia, la definizione e le trasformazioni nel tempo delle culture popolari; la costruzione del linguaggio pubblico, la definizione del gergo politico.
Tutto questo presume la costruzione non solo di uno strumentario concettuale, ma richiede anche competenze che non possono limitarsi solo agli storici o agli scienziati della politica, ma debbano vedere la cooperazione di competenze disciplinari e sensibilità multiple.
Non lo dico per scoraggiare. Al contrario. Considero questa osservazione una buona notizia per la ricerca storica. Preliminarmente perché rimette al centro della storia le persone, senza idealizzarle
Ma quando si indaga sulle figure carismatiche – e il Papa indubbiamente lo è – quanto si è capaci, non idealizzandole, di mettere a nudo i loro limiti, non personali, ma istituzionali?
Qui si apre una diversa partita che ci riguarda in senso generale in relazione al tipo di qualità della vita che vogliamo, possibilmente per ciascuno e per tutti, ovvero per chiunque: quanto l’intellettualità e gli intellettuali sono capaci di non essere né idolatri, né dissacratori? Ovvero, più esplicitamente: né servi, né distruttori «a-priori», bensì costruttori di coscienza critica, ponendo questioni, ineludibili, esigenti e disagevoli?
Non è solo un problema di documenti, vedibili o meno, o di archivi, aperti alla consultazione o meno. Questa questione allude alla capacità di farsi domande.
Questa capacità – o forse questa che a me pare un’assenza di capacità – quanto mette a nudo il vuoto di questo nostro tempo presente?
Devi fare login per commentare
Accedi