Storia
16 Marzo 1978 – effetti di memoria
Da poco è stato trasmessa la serie di Marco Bellocchio su Aldo Moro, Esterno Notte. Ho trovato il film molto bello talvolta magico, talvolta realista. Non sono un critico cinematografico, né uno storico (d’altra parte non si può affidare a un film il compito di insegnare storia), ma qualcosa di autentico è passato in quell’opera. Di autentico per chi l’ha vissuta. Nella memoria di chi aveva la coscienza per rendersene conto, quell’evento è fissato, legato a particolari, talora molto minuti. Per me la storia personale si incrociò con quella più grande. Avevo otto anni. Ero in quarta elementare. Chissà perché ne ricordo i dettagli a partire dal colore giallo ananas del maglione del bidello. Ora non saprei dire se fosse veramente tale, o non piuttosto un custode. Entrò in classe guardando in faccia la Bianchini. La mia maestra sbiancò: «No!» – fece, sbattendo le mani una nell’altra. Noi non capivamo perché i grandi fossero così sconvolti. E anzi quasi eravamo eccitati, perché qualcosa stava succedendo, era successo, e insomma dovevamo tornare a casa. Presto. Subito. Ricordo che salii le scale della casa di nonna, ma quella volta non c’era l’odore di sugo di carne che saliva nella tromba delle scale. Un silenzio strano faceva udire il rimbombo ovattato di un’unica emissione televisiva che filtrava da ogni porta. La porta di mia nonna era semiaperta, e lei invece di essere in cucina era davanti alla televisione del salotto.
Frajese – «Ecco stanno arrivando le immagini che abbiamo ripreso…»
Vespa – «al Trionfale—-»
Fraiese -sì, a via Stresa…, sì… Sono quattro i morti, sono lì… due nella macchina , nella prima automobile… sta arrivando?»
Vespa, parlando al telefono. «sì? Possiamo dare la partenza, sì, allora è pronto il tuo servizio, sì…»
Fraiese – e «Adesso vediamo il primo servizio sul rapimento di Moro avvenuto un’ora fa…»
Seguivano le immagini di un mucchio di gente in piedi vicino a due macchine crivellate di colpi, e poi dei lenzuoli a coprire delle persone per terra e dentro le macchine. E una bava di sangue che scorreva da sotto un lenzuolo da cui sporgeva una mano con un orologio come quello di mio padre.
Non era un film, non era assolutamente un film. Lo sapevo, a me non stupiva che fosse reale che avessero sparato. Tutti i giorni sparavano. Le brigate rosse… Stupisce invece oggi, dopo quarant’anni da allora, mentre scrivo, che a me bambino, a quel bambino che ero sembrasse strano che se c’erano stati dei morti qualcuno avesse voluto coprirli. Ma perché se erano morti? Non potevano prendere freddo. Se non volevano che si vedessero potevano toglierli subito di là, e non lasciare che la tv li riprendesse così, stesi a terra.
«Poveri figli. Poveri figli! » mia nonna ripeteva. Poveri figli. Anche se erano padri, erano figli. Nel dialetto di mia nonna era il modo di onorare quegli uomini, ma si preoccupava di chi lo avrebbe detto alle loro mogli, alle loro madri.
«Delinquenti maledetti», quelli che avevano fatto quei morti. «Madonna santa, poveri figli. Madonna…»
Mentre la tv mandava quasi in loop quelle immagini – che poi avrei rivisto, ricollocato nella loro dimensione storica, anche se ancora oggi faccio fatica a realizzare veramente come a quel tempo tutto ciò potesse sembrarmi normale – la memoria è fissata su quella scena. Il salotto di mia nonna, la tv accesa, quei lenzuoli bianchi. E poco prima il maglione del bidello e la maestra che era scoppiata a piangere. «Il presidente è stato rapito».
Poi non ricordo quasi più nulla.
Quattro anni dopo in macchina con mio padre, stavamo andando a Taranto, lo sento dire: «Se avessero vinto le BR, le avrebbero considerate come oggi considerano gli eroi del Risorgimento. Ma hanno perso. La storia è così».
Ma cosa era successo a quella generazione? A quella di mio padre dico. Che poi era quella quasi coetanea a chi sparava per strada. E alla mia, che a otto anni scrivevo: «Violenza spari morti assassini furti ostaggi. Via tutto questo, via! E un giorno diremo abbasso l’odio, viva l’amore»? Questa poesia la scrissi nella Pasqua di quell’anno, credo. La maestra ci fece raccogliere quelle che avevamo composto, e conservo ancora il libretto rilegato. C’era anche quella di Angela. «Un passero si posa sul davanzale. Cerca qualche briciola la trova. È contento, ha capito che qualcuno lo ama». L’amore. Tutte quelle frasi finivano con la parola amore. Forse perché la quota di aggressività barbara, e oggi in parte rimossa, di quella società era tale che le parole che si insegnavano ai bambini dovevano avere la purezza assoluta, quasi brutale, di un esorcismo.
Della serie di Bellocchio mi hanno colpito gli sguardi, i particolari, i colori. Erano quelli che ricordavo. I dialoghi del film sono profondi. Le parole spezzate. L’ultimo colloquio di Moro nel suo cubicolo con il giovane prete che va a confessarlo è sicuramente un capolavoro. «Avere paura di morire è il contrario di essere matti». Moro non lo era. Era un democristiano, e aveva capito. Chissà se avrà trovato «luce». Se c’è stata per lui, ci sarà anche per noi, forse, ancora. E speranza.
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