Benessere

La felicità che migra: il World happiness report 2018

15 Marzo 2018

In attesa del 20 marzo, Giornata mondiale della felicità, e dopo che il tema è prepotentemente entrato nell’agenda di molte imprese, con la figura del chief happiness officer che porta avanti il topic del welfare aziendale e del lavoro smart ai tempi della rivoluzione digitale, esce puntualissima una pubblicazione che è un must, per chi è interessato al settore.

Il World Happiness Report dell’ONU, che monitora dal 2012 la felicità di più di 150 paesi nel mondo.

Come si misura la felicità? I dati sono quelli della Gallup World Poll, che sottopone a campioni rappresentativi di diversi paesi interviste incentrate su una domanda:

Immagina di avere davanti una scala a pioli, con dieci gradini. Il gradino 0 indica felicità minima e il gradino 10 felicità massima. Considerando ogni aspetto della tua vita, su quale gradino ti posizioneresti?”

Questi report, per lo più, fanno notizia per qualche giorno, contribuendo al temporale digitale, principalmente per l’elemento meno interessante: la classifica dei paesi più felici.

Liberiamo, dunque, subito il campo assolvendo allo scopo: come sempre, nella top ten svettano i paesi scandinavi, con il primo posto occupato dalla Finlandia, quest’anno, tallonata dalla Norvegia e, sull’ultimo gradino del podio, dall’onnipresente Danimarca, felice a dispetto del principe Amleto. La classifica dei 10 paesi è come il fatturato delle squadre di calcio in Europa: cambiano le prime posizioni, ma le squadre son sempre quelle.

E l’Italia?

Giace piuttosto in basso, anche se sale di  una posizione, passando dal quarantottesimo al quarantasettesimo scranno.
Morto che parla, insomma.

Evaso il nostro dovere nei confronti della futilità, veniamo alla ciccia: perché il World Happiness Report è un progetto meritorio e rigoroso di investigazione scientifica del tema della felicità, ogni anno concentrandosi su un tema particolare e, in generale, con l’obiettivo di mostrare la rilevanza in termini di policy di un approccio multidimensionale alla visione del benessere e, soprattutto, alle determinanti dello stesso.

Le componenti della felicità ONU sono: reddito, salute, generosità, fiducia (forza della rete sociale di supporto), libertà e assenza di corruzione.

Per chi si prende la briga di leggere il poderoso studio, è manna dal cielo l’indagine attenta che diventa, di anno in anno, sempre più interessante perché, col tempo e il crescere delle informazioni, è possibile misurare trend e modifiche nei livelli di felicità.

Il World Happiness Report del 2018, decisamente sul pezzo, è dedicato dunque al tema della migrazione.

5 dei 7 capitoli riguardano proprio la correlazione tra flussi migratori e livello di felicità, stando bene attenti a considerare diverse possibili definizione e accezioni della migrazione stessa:

  1. La migrazione da aree rurali ad aree urbane, che ancora caratterizza molti paesi nel mondo
  2. La migrazione internazionale, che riempie le cronache dei nostri media, soprattutto in campagna elettorale
  3. La felicità di chi è già migrato anni fa e, in qualche modo, prova a intonarsi con il paese in cui vive

Ecco, questa cosa dell’intonazione è una metafora a mio avviso funzionante: in un bel libro sulla Teoria dei sentimenti morali di Adam Smith, si faceva proprio l’esempio di un’orchestra che tenta di accordarsi sul la dell’oboe. In fin dei conti, il motivo per cui gli esseri umani creano una società è proprio quello: tentare di accordarsi in vista di un concerto.

I dati mostrano, in generale, un effetto positivo della migrazione in termini di felicità, con un’evidenza importante: non è tanto il reddito a determinare la felicità dei migranti e dei cittadini originari del paese che li ospita. La forza del tessuto sociale e delle sue istituzioni impatta sul benessere sia di chi migra, sia di chi accoglie i migranti, molto di più: “The countries with the happiest immigrants are not the richest countries, but instead the countries with a more balanced set of social and institutional supports for better lives“.

Un aspetto molto interessante è anche quella che viene chiamata ‘footprint’, una specie di impronta di felicità originaria: anche se la felicità dei migranti tende a convergere rapidamente verso il livello di felicità del paese che li ospita, rimane come un rumore di fondo, un piccolo gap che lega ancora il migrante stesso al suo paese di origine.

È un po’ l’eterna questione per cui chi decide di andarsene dal proprio paese non riesce mai completamente a sentirsi a casa, là dove arriva, così come non è neppure più la persona che è partita.

Come una parola in cerca di traduzione, che aumenta ancora di più le responsabilità della lingua ospite, se vogliamo.

Particolarmente interessante, così, diventa la parte conclusiva del rapporto, dove viene introdotto un indice, di ‘accettazione dei migranti’, che misura la percezione che si ha del migrante nel paese di arrivo.

Non sorprendentemente, un livello più alto di questo indice, che indica dunque un atteggiamento positivo nei confronti della migrazione, si accompagna a un livello di felicità più alto sia per i migranti sia per i cittadini originari.
Basterebbe così poco, servirebbe così tanto.

 

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