Salute mentale

Vivere un lutto nel tempo compresso dell’emergenza

26 Marzo 2020

In questi giorni difficili sento spesso dire: << Il tempo dell’emergenza è un tempo sospeso, poi vedremo >>.

Ma è proprio sempre “sospeso” questo tempo? E ci sarà davvero la possibilità di recuperare azioni, pratiche e sentimenti in quel “poi vedremo” ? Certe situazioni, certi gesti, certe necessità anche, le potremo veramente rimandare ad un futuro di normalità? A quel “poi” che tutti ci auguriamo arrivi presto?

Alcune cose sì, altre no. Una di quelle che non sarà possibile posticipare, purtroppo, è connessa alla gestione del lutto.

Chi sta affrontando l’impatto con una morte improvvisa, in questo tempo dell’emergenza, ben sa che il tempo che sta vivendo, a cui viene sottratta la dinamica consueta delle azioni che si compiono in caso di perdita di un amico, di un parente, di un conoscente, è tutt’altro che sospeso e lento. E’, al contrario, compresso e accelerato.

Lo è soprattutto perché la sottrazione che ci viene ora imposta alla condivisione, alla aggregazione, alla fisicità di piangere su una spalla o in un abbraccio, non è qualcosa che resta sospesa e poi si vedrà. Ma, al contrario, è qualcosa che non tornerà mai più. Le azioni di piangere sul feretro, di seguire il funerale, di condividere ricordi e sofferenza con gli amici non potranno essere rimandate. Non verranno, in realtà, mai messe in pratiche nel corso della nostra esistenza futura.

Questo rende le dinamiche del lutto compresse e velocissime. Al punto da sfociare spesso in un immediato sentimento di rabbia, il qual sentimento solitamente impatta in una fase molto seguente quando si tratta dei consueti step di rielaborazione dei lutti in epoca di normalità.

Non soltanto. Ad emergere in tutta la sua forza è anche il tempo compresso della solitudine.

E rielaborare un lutto in solitudine, per la nostra storia della morte in Occidente, non è cosa da nulla. Anzi. Significa fare subito i conti con l’assenza, senza l’intermediazione del periodo dilatato in cui i parenti e gli amici portano conforto.

Esiste la tecnologia, è vero. Ma piangere di fronte a skype non è la stessa cosa. Soprattutto non la è nel momento in cui può prevalere più il sentimento di vergogna dovuto alla frapposizione dello schermo che mostra le lacrime, senza un riparo, un velo, quel nascondiglio di protezione che è un abbraccio.

Vivere un lutto ai tempi dell’emergenza è una esperienza che ci cambierà nel profondo.

Se da un lato consente di liberare subito il dolore, senza dover accondiscendere ai rituali di una socialità a volte anche falsati da sentimenti che sono molto più vicini alla formalità che alla sofferenza vera e propria, dall’altro spezza di netto il tempo trascorso con la comunità e ci impone immediatamente di fare i conti con la nostra improvvisa solitudine.

Diventa, così, un tempo tragico di sottrazione e di somma insieme.

Di sottrazione della fisicità, del conforto della gestualità connessa al momento di consolazione che era demandato alla cerchia famigliare e delle amicizie, ma anche di somma delle nostre solitudini, già messe duramente in evidenza dall’isolamento forzato e necessario a causa dell’emergenza.

C’è di più: al senso di colpa che emerge di consueto, ed è connesso alla perdita degli affetti più cari e che si racchiude in quel “lui/ lei non c’è più ed io invece vivo”, pensiero che appare nella mente di tutti coloro che si apprestano a piangere una perdita, si somma un nuovo senso di colpa, racchiuso nel “non si meritava di morire lontano dal nostro affetto”.

Se, in realtà, quell’affetto c’è ed è pure amplificato nella solitudine di chi lo prova,  per paradosso sembra però non esserci, in quanto non rappresentato nel rituale della sepoltura, reso invisibile alla comunità e, dunque, protagonista di un ulteriore dolore interno.

Ciò che dovremo fare, in quel “poi” che prima o poi verrà, sarà quindi conservare anche la memoria di queste nuove dinamiche di rielaborazione del lutto, e provare ad introiettarle come pratiche tra quelle possibili nei tempi di questa contemporaneità, al fine di scardinarne la portata eccezionale che ora impatta sulla nostra società, per renderle invece meno devastanti emotivamente e contenibili in quel cassetto delle cose che abbiamo imparato a gestire.

 

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