Economia

To PIL or not to PIL: economia digitale e misurazione della ricchezza

5 Maggio 2018

Questo non è un articolo per i fricchettoni della happiness agenda, portatori saggi di un messaggio che, fondato sulla multidimensionalità del benessere, punta al superamento di indicatori esclusivamente monetari, segnatamente il PIL, come approssimazioni della qualità della vita. Per i romantici, rimandiamo direttamente all’esaustivo e citatissimo discorso di Bob Kennedy che, nel 1968, ebbe già modo di rilevare le incongruenze di una statistica per un verso arida e, per un altro, troppo generosa, nell’escludere o includere in un solo numero ciò che rende la vita degna di essere vissuta e ciò che, all’opposto, ci fa stare peggio.

Il fatto è che il PIL è un indicatore che sta maluccio anche, e soprattutto, se si usano argomenti di pura efficienza (da Milanese Imbruttito per intenderci) per rispondere alla domanda: come misuriamo la ricchezza di una persona e di una nazione?

Già l’Economist aveva dedicato un lungo approfondimento alle crepe che l’economia digitale ha aperto nelle mura ormai vecchiotte di una contabilità nazionale nata come espressione, e dunque misura, di un’economia strutturalmente diversa.

La dematerializzazione ha portato e porta con sé un corollario spesso dimenticato: siamo sicuri che il denaro speso sia ancora l’unico indicatore in grado di dirci qualcosa sul livello di benessere?

Gli economisti sanno bene che il problema nasce soprattutto in casi simili a quelli di un sistema fortemente digitalizzato, in cui è proprio cambiato il modo di attribuire valore a una cosa.

Se un bene, infatti, ha un prezzo, il PIL è un indicatore efficace nel dirci qualcosa sul benessere individuale e sociale e, di conseguenza, è utile a misurare anche le variazioni dello stesso benessere nel tempo.

Se, però, il prezzo di un bene precipita a terra fino a rasentare, e a raggiungere infine, lo zero, le cose si fanno più complesse.

E come si fa a misurare il valore di un qualcosa che ha prezzo zero?

Gli esempi di questo paradosso si sprecano.

Già nel 1994, in un famoso lavoro empirico, William Nordhaus aveva messo in dubbio la capacità del solo denaro speso di catturare il vero potere d’acquisto di una persona, ripercorrendo la storia dei prezzi della luce, dalla candela alle lampade ad olio fino alle lampadine più recenti.

La questione è appunto illuminante: l’esponenziale miglioramento nella nostra capacità di generare luce, con connesso straordinario aumento della qualità della vita, può essere racchiuso nel solo cambiamento dei prezzi della luce stessa nel tempo?

La risposta è semplice e netta: NO.

Quando il prezzo di qualcosa si abbassa, il valore di quel qualcosa potrebbe essere approssimato meglio da un’altra grandezza, che gli economisti chiamano surplus del consumatore.

Il surplus del consumatore è la differenza tra il valore che si attribuisce a un oggetto/bene e il prezzo che si paga per acquistarlo. Se una fetta di sacher costa 2 euro e si sarebbe disposti a pagarne 4 per averla, il surplus è di 2 euro.

Ora, il surplus del consumatore misura il valore che diamo a un bene, quando questo bene ha prezzo 0.

E arriviamo al mondo digitale, il paradiso dei beni a costo (diretto) 0.

La critica legittima mossa da sempre più economisti all’interno della comunità accademica è che, in un contesto in cui il prezzo dei beni scende fino a raggiungere lo 0, le variazioni di PIL non solo non catturano le nostre variazioni di benessere, ma neppure possono farlo.

Di qui il fatto che, negli ultimi dieci anni, il consumo di musica delle persone è aumentato moltissimo, grazie a piattaforme digitali tra cui Spotify, mentre il fatturato delle case discografiche che vendono cd-canzoni -musica è crollato anche del 40%.

Il PIL è costruito per catturare quest’ultimo crollo, ma che dire del miglioramento della qualità della vita di chi usufruisce di più musica di quanta sia mai stato possibile godere prima?

E lo stesso dicasi per le telefonate, per la fruizione di contenuti multimediali o per l’utilizzo dei social, che ci procura benessere o valore e della cui gratuità ci accorgiamo solo quando vengono fuori scandali tipo Cambridge Analytica.

È un fatto che anche una persona non particolarmente benestante, oggi, goda di un accesso a possibilità (videochiamate intercontinentali gratuite, accesso a cataloghi di libri, musica e altri contenuti pressoché illimitati, sistemi satellitari di rilevazione della posizione geografica real-time, etc.) che erano off limits, solo 50 anni fa, anche per i più facoltosi abitanti del pianeta.

Ora, una parte sempre più ampia della nostra vita viene vissuta online: su Google, sui marketplaces per acquistare beni, sulle app di messaggistica e di condivisione di foto. E sugli altri social.

Ma come si può stimare l’aumento di qualità della vita delle persone se quei beni hanno prezzo zero?

Qualcuno prova a calcolare il valore dei beni e servizi digitali attraverso la moneta corrente che serve per avere accesso ad essi: il tempo. Quanto tempo dedico ai vari servizi e come posso esprimere questo tempo in forma di denaro?

Del resto, è stato lo stesso AD di Netflix a dire: “Il nostro unico competitor è il sonno”.

Un lavoro empirico molto interessante, e pubblicato come working paper recentemente, propone invece una metodologia diversa: i massive online choice experiments.

Si tratta di esperimenti fatti con un gran numero di persone, che sfruttano la cornucopia di dati disponibili nel mondo digitale, per provare a stimare quel surplus del consumatore di cui parlavamo prima.
E come?

Be’, si prendono un bel po’ di persone, appunto, e si fa un esperimento: gli si chiede quanto denaro vorrebbero ricevere per rinunciare a un mese di Facebook e gli si dice che 1 su 200 tra essi, una volta registrata la risposta, verrà estratto e riceverà appunto il denaro richiesto, a patto che poi stia davvero un mese senza Facebook.

In questo modo, si riesce ad elicitare (a far emergere) le spesso fumosissime preferenze del consumatore.
E si riesce a disegnare una curva di domanda che, alla fin fine, consente di stimare il valore del bene in questione.

Il valore mediano che esce dalle migliaia di osservazioni raccolte è abbastanza interessante: 37,76$.

Questo significa che per il 50% dei soggetti dell’esperimento, che ha coinvolto quasi 3 mila persone, Facebook ha un valore mensile di circa 40 dollari.

Il paper presenta anche un altro test che usa dati delle Google Consumer Surveys e che, con una logica simile a quella descritta prima, arriva a produrre una sorta di classifica del valore annuale dei principali beni digitali: in cima ci sono i motori di ricerca (valutati 17,5 mila dollari), seguiti dalle mail (8 mila dollari) e dall’uso di mappe digitali (3,6 mila dollari). Youtube e altre piattaforme escono da questa stima con un valore di circa 120-240 $ all’anno.

Rimando all’articolo per chi volesse approfondire: gli autori non esitano a ripetere più volte i caveat della loro analisi. La variabilità delle stime è tale e il range dei risultati così ampio che, dai diversi numeri, è difficile poter evincere una statistica univoca affidabile. Ma la crescente disponibilità dei dati è senz’altro un incoraggiamento a servirsi di metodologie simili per modificare la contabilità nazionale (l’obiettivo ultimo è produrre una metrica che possa essere utilizzata a livello generale) e includere finalmente il valore dei beni e servizi digitali nella nostra misurazione del benessere.

Del resto, come diceva Keynes, è meglio avere all’incirca ragione che precisamente torto.

E la digitalizzazione dell’economia invoca a gran voce nuovi numeri e nuovi indicatori di qualità della vita.

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